Secondo anniversario della strage di Stato
di Manfredo Pavoni Gay
Partecipante alla Carovana Migranti in Calabria, ringraziamo Manfredo Pavoni Gay che ci riporta le sue preziose impressioni.
La notte del 26 febbraio, dopo un viaggio che parte dai Comuni vesuviani della Rete di Solidarietà ai Migranti fino a una tappa che tocca i Comuni Solidali della Calabria, come il progetto di Rosarno, con le arance vendute ai G.a.s.. di tutta Italia, il progetto di DambeSo gestito dalla FCEI (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia) di accoglienza diffusa dei migranti braccianti agricoli nella Piana calabrese, ci siamo ritrovati tutti, dopo il convegno organizzato dalla Rete 26 Febbraio, sulla spiaggia ventosa di Steccato di Cutro.
Qui, il 26 febbraio del 2023, un caicco di vecchia fabbricazione partito dalle coste turche con a bordo 180 persone per lo più di origine iraniana, afghana e pakistana si schiantava su una secca a 40 metri dalla costa. Non fu il maltempo, non furono i disguidi nella comunicazione tra Frontex e la Guardia costiera, ma strati e strati di razzismo, necropolitiche, burocratismo vischioso di stampo prefettizio, a causare la morte di 91 persone e decine di dispersi.
Frontex aveva informato da almeno 10 ore le autorità italiane che un caicco in balia di un mare a forza 5 si stava avvicinando alle coste calabresi, senza che nessuno si muovesse per portare aiuti, per aprire un varco SAR per il salvataggio, nulla di nulla.
Siamo a venuti fino a qui da Torino, insieme a tanti donne e uomini impegnati da anni a denunciare le politiche criminali della Fortezza Europa e che spesso si sostituiscono allo Stato nell’accogliere i feriti, nel dare un nome e una sepoltura ai tanti morti in mare, nelle diverse rotte migratorie dai Balcani alle Canarie, dove i migranti pagano il prezzo di non appartenere ai ricchi privilegiati dell’Occidente, cioè a molti di noi, che con i nostri passaporti di serie A, una carta di credito e un click su un sito di viaggi, apriamo come una scatola di tonno qualsiasi frontiera del globo terracqueo.
Ci chiamiamo Carovana migranti Abriendo Fronteras, una rete europea che da anni organizza viaggi solidali attraversando le frontiere d’Europa che oggi rappresentano linee immaginarie che hanno una pesante ricaduta sulla vita di esseri umani e rappresentano le necropolitiche globali, per usare una espressione diventata tristemente famosa di Achille Mbembe, uno dei più importanti teorici viventi del postcolonialismo.
Fatima, Farzane e Laila, inginocchiate davanti alle foto della loro famiglia distrutta nel mare di Steccato di Cutro il 26 febbraio del 2023, nel secondo anniversario della strage, rappresentano l’immagine più triste, più dolorosa, più inaccettabile che, come partecipante alla Carovana migranti, ho dovuto affrontare in questo viaggio nella topografia delle necropolitiche europee, nei confronti di uomini e donne costrette ad abbandonare i loro Paesi devastati da guerre integralismi e devastazioni coloniali.

Foto: Manfredo Pavoni Gay
Potrebbe anche finire qui, con questa foto, questo racconto, con Fatima e l’altra sorella che mi spiegano in tedesco, vivono a Dusseldorf, che Laila, la mamma, ogni notte da tre anni si sveglia urlando i nomi di suo fratello Zabiullah di 37 anni, Mina la moglie di 26 anni e i loro tre piccoli figli, Akef di 5 anni, Aref di di tre anni, e Hasib di un anno e quattro mesi, che sono morti, affogati insieme ai 91, di cui 33 bambini nella strage di Stato a Steccato di Cutro. Ma potrebbe anche finire con il racconto che fa Assad Almolki, 20 anni, siriano, che quella notte era riuscito a buttarsi nelle acque gelate dello Jonio appena la barca si era spezzata in mille pezzi aggrappato a un pezzo di legno con il fratellino di 7 anni. «Dopo un’ora, mi ricordo che lui, mio fratellino, mi diceva Assad ho freddo, ho freddo poi ad un certo momento gli è uscita una schiuma bianca dalla bocca e poi non rispondeva più. Era morto».
Tutti e tutte, familiari e superstiti, che vivono in gran parte in Germania, hanno preso le loro ferie per poter venire a Cutro per ricordare, raccontare, denunciare la strage di stato a pochi metri dalla riva quando il caicco chiamato per ironia della sorte Summer Love, nella fredda e ventosa notte del 26 febbraio si è schiantato sulla secca a 40 metri davanti la spiaggia di Cutro.
Cutro è l’ultima tappa della Carovana Migranti che, partita da Napoli, ha incontrato la Rete vesuviana solidale, e poi i paesi della Calabria che si aprono ai migranti, con le loro reti di solidarietà e di accoglienza diffusa, il progetto di Rosarno e la baraccopoli di San Ferdinando; ma in fondo Cutro è un po’ l’inizio e la fine di questo viaggio al termine dell’Europa dei diritti, se mai è esistita una Europa dei diritti.
Quando Fatima e Farzaneh capiscono che parlo tedesco, visto che nessuno al Convegno organizzato dalla Rete 26 febbraio parla il Dari né il Tedesco, mi raccontano la loro vita di questi due anni di promesse mai mantenute dal governo italiano; della nonna che incredula per la morte del figlio e dei suoi nipotini, continua a cucinare il suo piatto preferito, aspettando che ritorni in Afghanistan. Mi chiedono di tradurre le loro parole gonfie di rabbia e dignità contro il governo, la politica che non ha salvato i loro cari a pochi metri dalla spiaggia e non ha concesso i visti alle famiglie in Siria o in Afghanistan per poter elaborare l’antico lutto della sepoltura, riaffermato da Antigone contro le leggi degli antichi e moderni tiranni, che lo vorrebbero negare.
Sono giustamente arrabbiate più di altri familiari, più della mamma, che ha paura delle parole che potrebbero scagliare contro il governo italiano, contro l’Europa e mi chiede di dire loro di non esporsi, di non andare a parlare al tavolo dei relatori; soprattutto teme per Fatima, che a differenza della sorella, non ha ancora la nazionalità tedesca, ma solo un permesso di soggiorno umanitario.
Traduco il testo di Fatima mentre Farzaneh mi chiede “ma come è stato possibile lasciarli morire dopo che erano stati avvistati da un aereo di Frontex tante ore prima, ma come è possibile che l’occidente riempie di armi l’Afghanistan e poi non accoglie chi cerca di fuggire dalle conseguenze di quelle armi. Ma perché – mi chiede con la sua ingenuità di ragazza di 29 anni che in Germania lavora da un parrucchiere – mia nonna e mio nonno non possono venire a piangere sulle loro tombe a Düsseldorf?”

Foto:Daniela Gioda
Potrei rispondergli con una spiegazione storico-politica su cosa è stata Frontex, una specie di Gestapo per coloro che sono in viaggio verso l’Occidente, o potrei spiegargli che oggi tutto l’Occidente ha un unico mantra: quello di limitare bloccare l’ingresso dei cittadini, chiudere e presidiare le frontiere, perché i migranti devono restare fuori, nei non luoghi, fatti di divieti, muri di contenimento, campi di raccolta e confinamento. Proprio come nelle politiche di colonizzazione in cui i corpi dei colonizzati venivano ridotti a merci, schiavi in patria o all’estero, oggi i migranti subiscono la stessa sorte e la frontiera è lo strumento di questo nuovo annientamento neocoloniale. Ma mi viene solo da piangere e chiedere scusa.
La cosa migliore è tradurre e lasciare spazio al suo bellissimo j’accuse a tutti noi cittadini dell’EUROPA e dei diritti perduti. Lei ha tutto il diritto di scagliarci contro queste parole molto più dure delle pietre: «Con la negligenza del vostro governo, avete ucciso centinaia di persone. Vi prego di non ripetere la stessa negligenza. Per favore, prendete sul serio il vostro lavoro e non trattate i migranti con tanta superficialità. Siamo tutti esseri umani. Perché dovremmo essere uccisi così facilmente solo perché non siamo coinvolti nella politica?
Mia madre sta attraversando una crisi difficile e ha bisogno dei suoi genitori. Non possiamo tornare in Afghanistan. Asad ha solo 24 anni e ha bisogno dei suoi genitori. Asif, un ragazzo afghano che era su quella nave, ha bisogno dei suoi genitori. Ha solo 16 anni. E ci sono anche altri di cui non posso fare i nomi qui. Vi prego di prendere sul serio la situazione e di rispettare le promesse che avete fatto. Rispondete a noi. La nave è affondata, ma per voi la questione è chiusa? Per noi non lo è ancora e abbiamo bisogno di una risposta. Per favore, per almeno rimediare al nostro dolore, date una possibilità speciale ai sopravvissuti delle vittime, affinché possano venire a visitare le tombe dei loro figli e trovare un po’ di pace. In questo contesto, chiedo al Presidente dell’Italia di prendere sul serio la promessa che ci ha fatto e di affrontare la questione. La mia domanda è: quando il Presidente fa una promessa e non la mantiene, e la vita e la morte delle persone non hanno valore per lui, perché dovrebbe trovarsi in una posizione così alta per prendere decisioni sulla vita degli esseri umani? Ha mai messo te stesso nei panni delle vittime o delle famiglie delle vittime per capire quale dolore provano? Se questi fossero stati i tuoi figli, li avresti lasciati andare così facilmente?“
“Se la Signora Meloni, il Presidente dell’Italia, non è in grado di mantenere le sue promesse FACCIA UN PASSO INDIETRO!!! Risponda al popolo e sia compassionevole verso le persone, altrimenti se ne vada e ceda il suo posto a chi agisca secondo le sue parole.”
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Sabato, 8 marzo 2025 – Anno V – n°10/2025
In copertina: foto Victor Pozas – Abriendo Fronteras