venerdì, Aprile 19, 2024

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SPECIALE IRAN – Jin, Jîyan, Azadî

Il grido rivoluzionario delle donne curde

di Laura Sestini

Le proteste dei cittadini iraniani sono giunte al loro novantesimo giorno, nonostante la violenta risposta governativa nel tentativo di sedarle. Ultimo deterrente, le esecuzioni capitali pubbliche che dovrebbero intimorire i manifestanti e convincerli a ricredersi.

Dopo la pena capitale cosa potrà escogitare Ebrahim Raisi – Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran – per far desistere dai loro intenti ragazze, donne, madri, studenti, commercianti, lavoratori e abbandonare la loro causa? Altre manifestazioni avevano scosso il regime nell’ultimo decennio, ed infine le violente strategie degli Ayatollah avevano vinto. Le richieste non sono mai banali, c’è desiderio di libertà e di una vita più inclusiva e democratica, di eguaglianza e diritti indispensabili. Se il valore materiale più alto che detengono i manifestanti è la loro vita, adesso che si mette sul tavolo da gioco anche questa, chi potrà mai fermare le proteste?

Lo stesso è successo, e continua ad accadere, con chi per primo ha coniato lo slogan in lingua curda Jin, Jîyan, Azadî – donna, vita, libertà – alcuni decenni fa. Le giovani manifestanti iraniane se ne sono appropriate fin dai primi giorni, quando l’azione più significativa e provocatoria era togliersi il velo e lasciare i capelli al vento, in ricordo di Jîna Amini, la 22enne di origini curde morta per le torture della polizia morale, per non aver osservato attentamente le regole su come indossare l’hijab – il velo imposto dal regime teocratico islamista iraniano.

Dopo tre mesi di proteste e migliaia di arresti, le evocative parole Donna, Vita, Libertà, hanno fatto il giro del mondo occidentale e vengono pronunciate in tutte le lingue come grido di battaglia per la liberazione delle donne dal patriarcato e dalle disuguaglianze di genere.

Per chi conosce più nei dettagli la cronostoria politica e sociale delle donne curde, constatare che Jin, Jîyan, Azadî veniva riportata da tutti i maggiori canali televisivi e quotidiani è stata una grande e inaspettata sorpresa, di quelle che lasciano a bocca spalancata.

La genesi di Jin, Jîyan, Azadî inizia oltre 40 anni fa con guerrigliere del PKK – Partito dei Lavoratori del Kurdistan – fondato in Turchia nel 1978 da Abdullah Öcalan – detenuto in isolamento sull’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, da 23 anni.

Il braccio armato del PKK è la resistenza curda, contro i differenti regimi turchi principalmente, ma che abbraccia con varie sfumature tutte le parti del Grande Kurdistan, poiché ovunque risieda in Medio Oriente, la popolazione curda viene discriminata, perseguitata, repressa.

Anche se può sorprendere – ma in definitiva Öcalan si rifaceva ad un esempio di società comunista-socialista-marxista – nei principi politici e sociali del PKK, il leader Apo (soprannome di Öcalan) aveva individuato che solo con l’uguaglianza di genere si poteva attuare una vera rivoluzione contro gli autoritarismi e gli organismi dittatoriali e costruire una società democratica. Quindi, le donne che allora avevano abbracciato quelle teorie politiche, da partigiane o da civili, hanno iniziato a mettere in pratica una rivoluzione di genere – la Rivoluzione delle donne. Alla base di questo movimento femminista troviamo, ancor di più oggi, ampliata e aggiornata ai tempi, la Jineolojî, la scienza delle donne. Nei decenni, anche se con alti e bassi e contesti politici e patriarcali anche molto avversi, la lotta delle donne curde non si è mai arresa dal perseguire una parità di genere almeno entro la propria comunità.

Jin vuol dire donna, Jiyan, vita: i due vocaboli hanno la stessa radice. Anche in greco gynaíka significa donna, mentre in italiano la radice di gin-ecologia – dal greco gynaikología – ha a che fare con la riproduzione della vita.

Lo slogan delle donne curde Jin, Jîyan, Azadî riprende quota in pubblico con la guerra civile in Siria, e soprattutto quando la portata di invasione e di violenza del Califfato islamico era divenuta incontenibile e la sua roccaforte era stata istituita a Raqqa, città alle porte della regione a maggioranza curdo-siriana – il Rojava. In quel momento fu indispensabile autoorganizzarsi per difendersi dalla furia dei mercenari islamisti poiché la protezione dall’esercito lealista siriano, per le molte diserzioni e il caos che ha regnato nel Paese per molto tempo, sarebbe stata improbabile e difficile. E poi i Curdi non andavano molto d’accordo con Bashar al-Assad, il presidente siriano.

Nel 2012 molte giovani donne curde, ed in numerose occasione anche donne avanti con l’età, decisero di imbracciare le armi e fondarono le YPJ – Unità di Protezione delle Donne – per affiancare gli uomini già organizzati nelle YPG – Unità di difesa del popolo – per autodifendersi dall’Isis.

Nel 2015 vennero fondate dai curdi le SDF – Forze Democratiche Siriane – che comprendevano le unità di autodifesa YPG e YPJ in una coalizione con altre milizie arabe (anche reparti femminili), e assiro-siriache che risiedevano nel Rojava, per un migliore organizzazione difensiva di tutta la regione.

Come avevano già attuato nei primi Anni ’90 le guerrigliere del PKK, che si erano divise dai comparti di resistenza maschili, anche le donne della resistenza armata curdo-siriana contro il Califfato hanno preferito il loro esercito separato. L’autodeterminazione e la gestione del proprio corpo fa parte della Jineolojî – la scienza rivoluzionaria delle donne.

Nei lunghi anni di conflitto armato contro l’Isis, le combattenti curde sono divenute così brave e credibili anche agli occhi della parte più conservatrice e tradizionale della società, che la battaglia finale per la liberazione della città di Raqqa (giugno-ottobre 2017) fu affidata alla comandante Rojda Felat – una giovane donna con una lunga treccia di capelli neri militante nelle fila delle YPJ – che guidò un esercito di 11 mila uomini, vincendo anche la sua battaglia personale contro la società patriarcale che l’avrebbe ben volentieri relegata agli ambienti domestici della famiglia tradizionale.

La comandante YPJ Rojda Felat
Foto frame da video ypgrojava.org

La notorietà mediatica che hanno conosciuto le combattenti YPJ durante la guerra contro il Califfato islamico ha permesso di far conoscere la teoria della Jineolojî ad altri movimenti di liberazione delle donne nel mondo. Le zapatiste sono tra queste, a cui si uniscono adesso le giovani iraniane, ma anche gli uomini, che spontaneamente hanno adottato il grido rivoluzionario delle donne – Jin, Jîyan, Azadî, utilizzato all’unisono anche nella traduzione farsi, Zan, Zendegi, Azadi, grazie alla comunità curda di cui era parte la giovanissima Jîna Amini, minoranza etnica che partecipa ampiamente alle proteste contro il regime teocratico iraniano.

Per approfondire: https://www.theblackcoffee.eu/donna-in-guerra/

https://www.theblackcoffee.eu/la-rivoluzione-democratica-in-siria-di-nord-est/

Sabato, 17 dicembre 2022 – n° 51/2022

In copertina: installazione sulla Porta di Brandeburgo con lo slogan delle donne curde – Foto: Hawar.help.org

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