giovedì, Marzo 28, 2024

Cultura

Si può morire per Kiev come “ieri” si fece per Danzica?

Il confronto tra due scenari di guerra

di Ettore Vittorini

Faut-il mourir pour Dantzig?”, titolava nel maggio del 1939 il settimanale parigino ”Le National Populaire”. L’articolo che seguiva, era firmato dal deputato socialista-pacifista Marcel Deàt, il quale si domandava se valesse la pena morire per Danzica, l’antica città anseatica diventata un piccolo Stato libero, controllato dalla Società delle Nazioni e dalla Polonia, che Hitler voleva riprendersi. Il primo settembre scoppiò la Seconda guerra mondiale e Danzica ne fu l’elemento scatenante dopo una grave crisi politico-militare che covava in Europa sin dalla nascita del nazismo.

Si potrebbe oggi scrivere un titolo “Morire per Kiev?” e chiedersi se varrebbe la pena sacrificarsi per difendere l’Ucraina? Accettare questo confronto sarebbe come abbracciare la tesi del ripetersi della Storia. Ma la Storia non si ripete mai come una fotocopia. È difficile porre Putin al livello di Hitler e considerare il popolo russo simile a quello tedesco degli Anni trenta; oltretutto rispetto a quei tempi, oggi le reazioni e il sostegno alla nazione invasa dai russi sono state immediate.

Il capo del Cremlino è paragonato a quel gruppo di dittatori del mondo contemporaneo tra i quali Hitler e Stalin occupano i vertici della crudeltà, seguiti dall’iracheno Saddam Hussein, il siriano Assad, il libico Gheddafi, per non parlare delle ex dittature dell’America Latina. Tra i tanti, Putin ed Erdoğan sono i più “moderati”, ma anche loro ignorano l’uso del dialogo e usano la forza come metodo di “persuasione” contro le opposizioni interne ed esterne.

L’assetto geopolitico precedente alla Seconda guerra mondiale in Europa e nel mondo era ben diverso. Per esempio lo status di Danzica – la cui popolazione era in gran maggioranza di lingua tedesca – fu una delle assurde invenzioni del trattato di pace di Versailles del 1919 che oltre a creare lo Stato polacco, volle punire la Germania separandola dalla Prussia orientale con un “corridoio” che permetteva alla Polonia di raggiungere Danzica e il Mar Baltico.

Perciò Hitler dopo essersi preso la Cecoslovacchia e l’Austria, pretendeva che la Polonia rinunciasse alla città e al corridoio. Ottenne un netto rifiuto dal governo di Varsavia che si disse pronto a respingere una aggressione tedesca, contando sull’appoggio della Francia e della Gran Bretagna. Infatti le due nazioni dichiararono guerra alla Germania il 3 settembre, due giorni dopo che la Wehrmacht aveva superato i confini polacchi portando terrore in tutto il Paese.

Il conflitto mondiale con i quasi sei anni di distruzione e morte avrebbe potuto essere evitato se le Democrazie avessero fermato in tempo Hitler. Invece il governo di Londra, guidato da Neville Chamberlain, aveva scelto la politica dell’appeasement, cioè chiudere un occhio sulle malefatte di Hitler e accettare le sue vaghe promesse di pace, mai rispettate.

Pure la Francia seguì la stessa linea di condotta anche durante il governo socialcomunista di Léon Blum. Questa politica rinunciataria era dovuta a diversi fattori: il ricordo della sanguinosa “grande guerra” ancora vivo tra le popolazioni dei due Paesi; gli interessi economici e finanziari che li legavano alla Germania; il malcelato calcolo di riversare l’espansionismo germanico sull’Unione Sovietica; la politica non interventista degli Stati Uniti il cui ambasciatore a Londra Joseph Kennedy – padre di John, che nel ’60 diventerà Presidente – era un magnate apertamente filonazista.

E così, a partire dal 1934, i futuri Alleati lasciarono che le truppe naziste entrassero nella Renania, regione tedesca demilitarizzata dal trattato di Versailles; che nel ’36 durante la guerra civile spagnola l’Italia fascista e la Germania inviassero armi e militari in aiuto del generale Franco; invece non fecero niente in appoggio del governo repubblicano eletto democraticamente.

Soldati tedeschi tolgono una barriera di confine con la Polonia
Foto di dominio pubblico

Lo stesso atteggiamento lo conservarono quando Hitler nel 1938 minacciò di invadere i Sudeti – regione cecoslovacca – con la scusa di “salvare” la popolazione di lingua tedesca. Pensarono di fermarlo con le trattative di Monaco che si risolsero in una farsa: acconsentirono che i Sudeti fossero ceduti alla Germania in cambio delle promesse di pace del dittatore nazista. E pensare che allora i generali tedeschi dichiaravano segretamente l’impossibilità della Wehrmacht di sostenere una guerra, tanto più che la Cecoslovacchia era ben armata e si sarebbe difesa con l’aiuto anglo francese.

Hitler era ormai sicuro della debolezza dei due Stati democratici e proseguì nelle sue conquiste: a marzo del ‘39 invase l’Austria che diventò una regione tedesca. Poco prima il Cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg si era recato a Berlino per una trattativa e Hitler lo minacciò:” Se tentate di opporvi all’Anschluss – all’annessione – vi distruggerò in due giorni e nessuno verrà ad aiutarvi”. E così accadde: Francia e Gran Bretagna rimasero in silenzio e le truppe tedesche entrarono in Austria acclamate dalla popolazione. Pochi mesi dopo la Germania occupò quanto rimaneva della Cecoslovacchia.

La guerra diventò inevitabile con l’invasione della Polonia, ma gli alleati rimasero per mesi fermi nelle loro trincee, mentre dall’altra parte le truppe tedesche erano sguarnite poiché il grosso dell’esercito nazista si trovava in Polonia. Quell’inizio del conflitto fu chiamato dai francesi “le drõle de guerre”, la buffa guerra. Ma finì a maggio del 1940 quando le truppe germaniche invasero Olanda e Belgio, aggirando la linea Maginot e battendo in pochi giorni le truppe francesi comandate da generali rimasti fermi alle strategie di vent’anni prima. Come è noto, il contingente britannico si salvò imbarcandosi a Dunkerque. La Francia si arrese subito mentre a Londra diventò premier il combattivo Winston Churchill.

Tanto per la cronaca, nella Francia occupata dai nazisti, Marcel Déat fece “carriera”: divenne collaborazionista dei tedeschi; poi fu ministro del governo di Vichy e arrivata la liberazione, fuggì in Germania. Alla fine del conflitto si rifugiò da clandestino in Italia dove rimase sino alla morte avvenuta a Torino nel ’47. È da notare che nel suo Paese fu condannato a morte in contumacia, ma l’Italia non fece niente per estradarlo.

Sabato, 29 maggio 2022 – n° 22/2022

In copertina: Il giornale francese del 1939 col titolo su Danzica – Immagine di dominio pubblico

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