sabato, Luglio 27, 2024

Notizie dal mondo

Pirateria marittima

Prevenzione e sicurezza per equipaggi, navi e merci

di Laura Sestini

Negli ultimi 10 anni, in ambito di commercio marittimo si è sviluppato, in contrasto alla pirateria – quindi per la sicurezza delle navi, dei carichi e degli equipaggi – un modello che unisce operazioni militari internazionali e di sicurezza privata, risultato una strategia efficiente. Difatti, per quanto riguarda l’Oceano Indiano, la situazione pare verosimilmente “pacificata”.

A conferma di ciò le organizzazioni internazionali che rappresentano gli armatori hanno subito spinto per eliminare da questa “battutissima” zona di transito la titolazione di “area ad alto rischio”, in conseguenza al fatto che in Oceano Indiano non ci sono più attacchi o sequestri nei confronti dei mercantili, da circa due anni, con l’obiettivo di risparmio sui costi di trasporto per le indennità pagate sugli stipendi dei marinai e le polizze assicurative, quindi anche una questione economica per le società di trasporto marittimo commerciale, e non solo di sicurezza. In tal senso però ci sono Stati che non hanno ancora recepito il provvedimento, tra cui l’Italia, la cui ufficialità delle zone ad alto rischio era stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale nel 2015, rimanendo tuttora attiva. Pure la Norvegia rimane fuori dal gruppo principale, rimanendo tra i paesi ancora in allerta. Queste decisioni comportano che le navi battenti bandiera di queste nazioni si dotano ancora della sicurezza armata a bordo per affrontare i lunghi viaggi tra i continenti con i loro ingenti carichi.

In pratica ogni Paese decide per se stesso ed una ulteriore interpretazione sulle aree non più a rischio è l’esempio dato dalle major petrolifere, che aderiscono, ma poi obbligano a servirsi della sicurezza armata a bordo a quegli armatori che trasportano i loro barili di petrolio.

Effettivamente gli esperti sostengono che anche se gli attacchi alle portacontainer o le petroliere sono più rari, i pirati non hanno cambiato attività, si stanno solo occupando di altre mercanzie che nel momento possono risultare più convenienti, come traffico di armi o droga. Neanche l’operazione Atalanta/Eunavfor – la missione antipirateria dell’Unione Europea ha concluso la sua operatività nel Mar Arabico, mentre nell’Oceano Indiano è attiva la missione Agenor/Emasoh.

Contesto differente si ritrova nel Golfo di Guinea, in Africa occidentale, dove le forze militari degli Stati costieri vigilano sui traffici marittimi ma con scarse dotazioni tecniche, mentre la sicurezza armata a bordo dei mercantili non è permessa. In questa area le navi vengono scortate dalle varie Marine con delle vedette, dalle 200 miglia fino ai porti, dove poi operano sorveglianze locali. In West Africa la pirateria è piuttosto disinibita, e le ultime tendenze di azione si basano sul furto dei carichi, più che dei sequestri degli equipaggi contro riscatto, a differenza di quanto accadeva nel Mar Arabico dove preferibilmente si abbordavano navi ed equipaggi per poi dirigersi verso i porti della Somalia, dove le missioni europee o internazionali non possono agire.

In Nigeria le navi più ambite sono quelle che trasportano gasolio, combustibile utilizzato per la maggioranza delle attività, sottratto attraverso operazioni ship-to-ship. Oppure petrolio greggio che poi viene raffinato in laboratori clandestini nel delta del Niger, causando un enorme degrado per il fiume e gli habitat naturali circostanti, per gli scarti riversati direttamente in acqua insieme agli scarichi urbani.

La sicurezza marittima dei mercantili in queste aree è influenzata dalle decisioni dei singoli armatori, sulle cui navi che transitano in quei mari per il trasporto merci vale da osservare, per la sicurezza armata a bordo, la legislazione del proprio paese di pertinenza. Se la sicurezza a bordo non è obbligatoria, si può non valutarla, ma allo stesso tempo si rischia di essere attaccati.

Sulle navi battenti bandiera italiana, nei team armati di sicurezza, possono attualmente operare ex militari con esperienza di almeno sei mesi di missione in zone di conflitto, attività disciplinata dal D.M. n.266/2012, in deroga fino al 30 giugno 2023. Nel frattempo sono stati attivati corsi professionali anche per i cittadini che abbiano specifici requisiti, poiché gli operatori in attività per la sicurezza non sono in numero sufficiente per le richieste di mercato. Questa iniziativa professionalizzante conferma che l’Italia non ha intenzione di annullare l’allerta per le “aree a rischio” dei transiti marittimi, a causa anche dei conflitti che ci sono in alcune zone di passaggio, come la guerra tra Arabia Saudita e gli yemeniti – che interessa il Sud del Mar Rosso, il golfo di Aden, e parte della zona costiera dell’Oman. I ribelli Houti hanno la consapevolezza di essere in un punto geografico strategico, come quello dello Stretto di Bab el-Mandab di fronte alla Somalia, e la capacità di influenzare il traffico marittimo in quell’area – supportati dall’Iran – usando dei barchini esplosivi telecomandati da remoto, spesso mischiati con gruppi di barche di pescatori o trafficanti. La potenziale minaccia obbliga le navi in transito ad operare i procedimenti di sicurezza, per evitare che queste piccole imbarcazioni si avvicinino troppo, che in caso di attacco non è più possibile evitare; una tipologia di attacco arcaica ed a basso costo che già usavano i Pasdaran durante la guerra Iran-Iraq nella zona di Bassora.

Le procedure di sicurezza dei team armati a bordo delle navi sono soprattutto preventive, basate sulla valutazione di un possibile attacco, intimando ai gruppi di barche a non avvicinarsi, mettendo in sicurezza l’equipaggio, ed eventualmente far cambiare la rotta al comandante.

Pirati somali armati di fucili d’assalto e lanciarazzi  tengono in ostaggio l’equipaggio della M/n Faina diretta al porto kenyota di Mombasa carica di carrarmati T-72 e ucraini e relativo equipaggiamento militare (2008)
Foto: U.S. Navy by Jason R. Zalasky – dominio pubblico

In generale, le statistiche riportano che la maggioranza degli attacchi avvengono al tramonto o all’alba, difficilmente di notte, anche se non è escluso quando la luce lunare è forte. Gli skiff, i barchini con chi vengono predisposti gli attacchi, hanno una nave-madre che li porta a rimorchio, e si avvicinano normalmente da poppa, dove i radar hanno minore capacità di rilevare mezzi piccoli, dove quasi tutte le navi hanno dei punti ciechi. Una volta affiancati, gli assalitori si agganciano alla murata con una scala e salgono a bordo. Naturalmente queste azioni accadono quando non vi è presenza sulla nave della sicurezza armata.

Gli skiff dei pirati sono mediamente 10-12 metri di lunghezza, con due motori fuoribordo per massimizzare la velocità, che al posto delle attrezzature da pesca, hanno carburante, la scala e armi, principalmente Kalashnikov AK47, le più diffuse ed economiche, oppure RPG7, una arma portatile controcarro, individuale, spallabile, anch’essa molto diffusa.

L’equipaggio di una nave mediamente è composto da 20 – 26 persone, compresi i vertici di comando. In quanto alla sicurezza armata a bordo, la normativa italiana identifica un minino di tre persone, e un massimo indefinito; infatti i team di sicurezza sono generalmente gruppi di soli tre operatori, un team leader ed altre due unità. La parte più critica della vita a bordo di un team di sicurezza è il transito dallo Stretto di Bab al-Mandab, che apre al Golfo di Aden. Le zone costiere dello Yemen sono quelle che generalmente destano più preoccupazione: ci sono 500 miglia di corridoio di sicurezza pattugliate dalle missioni internazionali, ma l’entrata o l’uscita dallo Stretto rimane sempre un punto critico, con molti barchini, non di pescatori, che vanno e vengono tra le coste yemenita e le somale, tutti – potenzialmente – di pirati malintenzionati.

Una potenziale minaccia può essere “a vista”, oppure recepita dal radar, un segnale entro le sei miglia. Il target – gergo tecnico per indicare l’imbarcazione minacciante – potrebbe essere la nave-madre di uno o più barchini; questo viene monitorato sul radar sia per la posizione, la velocità, che la rotta. La prima fase di sicurezza è di allerta, ovvero la valutazione della minaccia insieme al comandante della nave. Quando l’imbarcazione è visibile con i binocoli, a circa a un miglio di distanza, si cerca di capire cosa è, se una probabile minaccia. Se viene valutata una reale minaccia, viene attivata la fase di allarme, che prevede che l’equipaggio si rechi nella cittadella, il luogo sicuro della nave, una dotazione che quasi tutte le navi hanno. Sul ponte rimangono gli operatori della sicurezza, il comandante, il timoniere e un addetto alle telecomunicazioni. Se la minaccia sembra confermarsi, entro mezzo miglio si attiva la procedura di sicurezza vera e propria, che prevede lancio di razzi rossi di segnalazione per attirare l’attenzione dell’imbarcazione-target. Se l’avvicinamento prosegue, allora si mostrano le armi, visibili dai binocoli. A questo punto, nell’esperienza del nostro interlocutore, tutti i natanti cambiano rotta. Non è dato sapere chi siano le persone a bordo di quell’imbarcazione che ha messo in allerta, un dato che diventa interessante, dal punto di vista della sicurezza, solo se dall’altra parte gli occupanti del natante iniziano a sparare.

Come già affermato, l’azione di sicurezza a bordo di un mercantile è prevalentemente di prevenzione, quindi allontanare la potenziale minaccia è già un’operazione di successo. Al contrario, dover sparare dei warning shot, spesso significa che non tutta la procedura ha funzionato a dovere. Anche se l’intenzione fosse di attacco, una volta che i pirati vengono a conoscenza della sicurezza armata a bordo, per loro non è più conveniente andare avanti, risultando in una posizione di inferiorità, sotto tiro di armi, con poche chance di riuscita.

Senza un team di sicurezza a bordo, la medesima minaccia avrebbe sicuramente un esito differente.

E’ chiaro che gli equipaggi, con la presenza dei team di sicurezza a bordo, si sentono protetti, anche perché con la cancellazione delle zone ad alto rischio, dal 31 dicembre 2022, il personale marittimo è obbligato a transitare per la rotta decisa dall’armatore, mentre precedentemente la si poteva rifiutare e sbarcare, creando disagi e ritardi nelle partenze per la ricerca di sostituti.

Dal punto di vista umano, le difficoltà sulla nave possono essere sulle relazioni tra le persone a bordo, equipaggio composto da più nazionalità. Qualche volta la vigilanza armata a bordo può essere vista come un fastidio dalle figure di comando, al contrario dei marinai, spesso filippini o indiani, che hanno più esperienza e consapevolezza della pirateria in mare.

A bordo, il team redige il risk assessment, una valutazione della sicurezza della nave da sottoporre all’armatore, una lista dotazioni – per esempio il filo spinato sulle murate della nave – che andrebbe a migliorare la sicurezza. Non è detto che l’armatore realizzi quanto suggerito, ma nel tempo qualcosa è cambiato e magari con l’occasione di riparazioni in cantiere si provvede a qualche misura in più per raggiungere standard migliori di protezione contro le piraterie.

Dai casi più gravi di pirateria o anche eventi a terra, come i sequestri, è nato il security manager, una figura competente per i rischi che corrono equipaggi di mare o di terra in aree “calde” del mondo, che le grandi aziende obbligatoriamente devono inserire nel loro organico.

Alla fine della missione il team leader redige il Mission report, una relazione sulle attività svolte durante l’ingaggio del team di sicurezza, mentre le armi sono in dotazione agli operatori solo per i tratti di mare ad alto rischio, prelevate – e restituite – da apposite navi armeria all’entrata e all’uscita delle aree di transito definite tali.

Sabato, 8 aprile 2023 – n°14/2023

In copertina: foto di Farah Abdi Warsameh

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