martedì, Marzo 19, 2024

Italia

La verità sulla Moby Prince?

Resta ancora in alto mare

di Ettore Vittorini

“Qui Moby Prince, mayday, mayday, mayday. Siamo entrati in collisione, prendiamo fuoco.”   La   disperata richiesta di aiuto che non viene raccolta, proviene dal traghetto della Società Navarma diretto da Livorno a Olbia. Sono le 22 e 20, la nave ha lasciato gli ormeggi 20 minuti prima e naviga ancora nella rada, a poco più di due miglia dal porto, quando sperona la petroliera Agip Abruzzo – all’ancora- provocandole uno squarcio su una murata. Il petrolio fuoriuscito inonda la coperta della Moby e si infiamma.

E’ questo l’inizio di una tragedia compiutasi il 10 di aprile di 30 anni fa, la più grave della marineria italiana dal dopoguerra: sul traghetto morirono 140 persone, 64 membri dell’equipaggio e 76 passeggeri. Si salvò soltanto un mozzo di 23 anni, Alessio Bertrand, aggrappatosi a una balaustra di poppa. Venne soccorso soltanto un’ora e mezzo dopo da due ormeggiatori, i primi ad accorgersi che la Moby era in fiamme.

I 30 componenti dell’equipaggio dell’Agip Abruzzo si salvarono con una scialuppa. Anche dalla petroliera era partito l’ S.O.S che però segnalava erroneamente la collisione con una bettolina (piccola imbarcazione che trasporta petrolio in poche quantità) e non con il traghetto. I soccorsi raggiunsero la petroliera mezz’ora dopo il suo mayday, ma venne ancora ignorata la Moby Prince che si era sganciata dalla nave investita e girava su sé stessa con le macchine ancora in funzione.

La Capitaneria di porto di Livorno si rese conto del coinvolgimento del traghetto grazie alla segnalazione dei due ormeggiatori, Walter Mattei e Mauro Valli, che passando con la loro imbarcazione vicino alla nave avevano salvato il mozzo Bertrand.  Anche una motovedetta della Guardia di Finanza che prese a bordo il sopravvissuto, segnalò al porto la presenza della Moby. Le uniche parole che Bertrand disse ai soccorritori furono: ‘lassù c’è gente ancora viva‘. Ma quando i soccorsi arrivarono la nave era avvolta dalle fiamme e dal fumo ed era impossibile salire a bordo.

Subito dopo l’impatto i passeggeri e il personale erano stati trasferiti nel salone di poppa che le porte tagliafuoco isolavano dalle fiamme. Erano certi che i soccorsi sarebbero stati immediati. Il porto era vicino, ma tra le autorità portuali la confusione era grande.  Morirono tutti per asfissia e non in pochi minuti – come affermarono le fonti ufficiali – ma dopo una lenta agonia. I vigili del fuoco che riuscirono a salire a bordo soltanto il 12 aprile quando la nave era stata rimorchiata in porto, trovarono corpi integri e non carbonizzati.

A partire da quei momenti drammatici si sviluppa una storia incredibile, fatta di errori, di contraddizioni, di scarico di responsabilità, di processi che non hanno convinto e di una inchiesta parlamentare. Insomma, a 30 anni di distanza la verità su quel disastro è ancora in alto mare.  <<Non chiamatelo disastro ma strage – si sfoga Nicola Rosetti, vicepresidente della “140”, una delle due Associazioni dei familiari delle vittime>>. Il presidente storico Loris Rispoli, che ha perso la sorella che lavorava sulla Moby, si trova da tempo in ospedale. <<Da trent’anni le nostre vite sono state stravolte e la verità non arriva mai – aggiunge Rosetti >>.

Luchino Chessa, presidente della Associazione “10 aprile” e figlio del comandante della Moby – Ugo Chessa -prova amarezza e rabbia ma ribadisce “non ci fermeremo mai”.  Difende la memoria di suo padre poiché nel percorso dei processi e delle inchieste, risulta che lo speronamento fu causato da un errore umano a bordo del traghetto e quindi la responsabilità ricadeva sul comandante.

In realtà dai sopralluoghi risultò che l’Agip Abruzzo non avrebbe dovuto trovarsi nella zona in cui era stata speronata, perché quello spazio di mare era vietato agli ormeggi. E infatti al primo processo sulla tragedia, iniziato a Livorno nel 1995, erano imputati come responsabili quattro ufficiali della petroliera. Alla conclusione, avvenuta due anni dopo, vennero assolti perché il ‘fatto non sussisteva’. I giudici scaricarono le responsabilità sulla nebbia e sul comandante Chessa. Invece secondo molti testimoni il cielo era sereno e la visibilità ottima. Lo confermò il capitano della Guardia di Finanza che comandava una motovedetta dei soccorritori. Disse: << In quel momento c’era bellissimo tempo, il mare calmissimo e una visibilità meravigliosa>>.

Tanto per la cronaca, il presidente della Corte – giudice Germano Lamberti – nel gennaio del 2013 è stato condannato a 4 anni e 9 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari in seguito a vicende legate a illeciti ambientali nell’isola d’Elba.

Al successivo processo di Appello di Firenze la Corte stabilì di non doversi procedere: i reati ascritti erano estinti per intervenuta prescrizione. Però nella sentenza vennero aggiunte critiche all’indagine sul disastro eseguita dalla Capitaneria di Livorno, che secondo i giudici sarebbe stata sommaria. La sentenza venne confermata anche dalla Cassazione.

Nel 2018 la Commissione d’inchiesta del Senato ha ribaltato la sentenza del processo del ’97 smentendo l’esistenza della nebbia e stigmatizzando il ritardo dei soccorsi. In base a quella conclusione lo scorso anno le due Associazioni dei familiari hanno presentato al Tribunale civile di Firenze un’istanza contro il ministero dei Trasporti e quello della Difesa. I giudici l’hanno respinta con la motivazione che “le conclusioni della commissione hanno esclusivo valore politico”. Le ultime speranze dei familiari contano ormai su una nuova Commissione parlamentare da cui potrebbe nascere un’indagine sul reato di strage.

Lo scorso 10 aprile la città di Livorno ha voluto ricordare le 140 vittime con una  cerimonia al Teatro Goldoni, durante la quale è stata consegnata alla Associazione “140” la ‘Livornina d’oro’ – massimo riconoscimento della città. La targa è stata ritirata da Nicola Rosetti. La manifestazione ha avuto inizio al mattino in Comune, poi sul porto dove davanti alla lapide che riporta i nomi delle vittime sono state deposte una corona e un cuscino di rose del Presidente della Repubblica.

E’ giusto ricordare le vittime di una tragedia, ma purtroppo questo rituale si ripete da anni anche per i morti di altre tragedie, di sciagure naturali, di stragi e di attentati. E’ come uno spettacolo sempre uguale, dove manca come attore principale la Giustizia. In Italia si ricordano le vittime ma non compaiono mai accanto ai loro nomi quelli di coloro che ne hanno causato la morte. E’ capitato per la strage del Vajont, quella di piazza Fontana, di Bologna e avanti sino ai nostri giorni. La Giustizia tra lentezze, burocrazia e motivi più oscuri non è mai riuscita a soddisfare le famiglie dei caduti e tutta l’opinione pubblica.

Sabato, 17 aprile 2021 – n°12/2021

In copertina : La Moby Prince nel porto di Livorno – Foto credits Forze Armate Italiane

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