sabato, Luglio 27, 2024

Notizie dal mondo

La guerra del grano

Come antiche tradizioni e semi autoctoni possono proteggere i paesi più poveri

di Nancy Drew

L’inaspettata guerra tra Russia ed Ucraina, ha messo alla luce del sole le fragilità che molti Paesi hanno in ambito alimentare, dipendendo principalmente da prodotti d’importazione. Tra questi potremmo citare anche l’Italia che, anche se in basse percentuali, importa grano e mais dal Paese ex-sovietico.

Secondo Coldiretti dall’Ucraina arriva in Italia appena il 2,7% delle importazioni di grano tenero per la panificazione, per un totale di 122 milioni di chili ma anche il 15% delle importazioni di mais destinato all’alimentazione degli animali per un totale di 785 milioni di chili. È quanto emerge dall’analisi dei dati Istat relativi al 2021. Nonostante la guerra, l’Ucraina ha annunciato un programma per assicurare almeno il 70% dei raccolti di grano rispetto al 2021, ma i risultati potremmo realmente constatarli sono dopo la stagione del raccolto, durante la prossima estate.

La situazione che si è andata a creare con la guerra sui alcuni prodotti alimentari è grave soprattutto dal punto di vista speculativo, che rischia di far emergere crisi alimentari interne nei paesi più poveri o in via di sviluppo. Tra questi troviamo l’Egitto, dove per la prima volta da quando è entrato in carica, il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha calmierato il prezzo del pane, dopo che il costo dell’alimento base egiziano era aumentato anche del 50%, naturalmente bloccando tutte le esportazioni. Ben in più pericolosa invece risulta la crisi del grano e della farina in Libano, Paese già alla bancarotta prima dell’arrivo della pandemia, che rischia il default alimentare. Nelle stesse condizioni si trova l’Afghanistan, dove la crisi alimentare ed umanitaria si era già innescata con il ritiro della coalizione militare occidentale. Preoccupazione per la crisi dei cereali anche in Tunisia.

Il pane tipico egiziano
Foto: Roland Unger CC BY-SA 3.0

La stessa Fao ha avvertito che la guerra tra Russia e Ucraina ha solo accelerato un processo di crisi del prezzo di grano, farina e semi, già iniziato dallo scoppio della pandemia da Covid-19. «Stavamo già avendo problemi con i prezzi del cibo. Ora il conflitto sta esacerbando la situazione, mettendoci in una situazione in cui potremmo facilmente cadere in una crisi alimentare” – ha confermato Maximo Torero – capo economista dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura.

La crisi del grano – che complice la guerra perdurerà anche negli anni a seguire – dovrebbe però dare una bella lezione a tutti. Dipendere dalle importazioni alimentari, a parte specifiche ed insolubili situazioni, arreca un corto circuito all’indipendenza economica e finanche al fabbisogno di cibo per interi Paesi.

Come abbiamo visto, l’Italia importa solo al massimo il 5% del fabbisogno di grano dall’Ucraina, almeno il doppio di quello che acquistiamo dalla Russia, ma molto di più da altri Paesi, Ungheria in testa, che al momento ha bloccato le esportazioni.

Nelle ultime decadi, in contrasto alle coltivazioni OGM ed alla proprietà delle sementi in mano alle multinazionali, produttori locali di tutto il mondo – principalmente di agricoltura biologica – hanno ‘resuscitato’ grani antichi, meno produttivi ma più resistenti, e rinnovate selezioni di semi alimentari, per colture di cereali, alla base delle diete di tutte le popolazioni. Sarà questa modalità che salverà da future crisi alimentari e speculazioni finanziarie?

Sotto questo aspetto, una interessante iniziativa arriva anche dalla Tunisia, dove moglie e marito – Samira e Youssef Hammouda – supervisionano la selezione dei semi della varietà di grano Mahmoudi nella loro fattoria a Zaghouan, nel nord del Paese maghrebino. «Di fronte al setaccio, ci vuole manualità e pazienza per separare il grano da altri semi ed erbacce” – sottolinea Samira – ma questo seme locale è stato trasmesso a Youssef dalla sua famiglia ed è per noi prezioso, più sano e robusto rispetto alle varietà importate.»

Youssef lo ha distribuito ad altri contadini della zona e vende parte del suo grano da agricoltura biologica ad una cooperativa di duecento donne – Lella Kmar Beya – che lo trasformano in couscous tradizionale. «Non abbiamo mai usato concime perché il seme è buono di qualità e resiste ai capricci del tempo» – afferma l’agricoltore.

Tali circuiti di produzione sono diventati rari in Tunisia. Se pensiamo che la Tunisia era il granaio di Roma, nell’antichità, al contrario il Paese importa oggi il 50% del proprio fabbisogno di cereali – di cui l’84% di grano tenero – utilizzati per la panificazione, e quasi il 50% di grano duro, per il cous cous. Questa dipendenza dai mercati esterni è stata creata dall’economia globale, ma si è fatta ben sentire durante la crisi del Covid-19, a causa della chiusura delle frontiere e dell’interruzione del commercio alimentare mondiale.

L’Ucraina in guerra è uno dei principali esportatori di grano e cereali verso la Tunisia e l’aumento globale del prezzo accresce le preoccupazioni sulle scorte, aumentando i timori per la sicurezza alimentare del Paese nei mesi a venire.

Moltiplicare le varietà locali, i semi dei contadini, perché ben si adattano al suolo tunisino, è la giusta proposta, tra le alternative, per affrontare al meglio questo tipo di shock, e tornare ad un’agricoltura più adatta ai cambiamenti climatici.

«Certo non si potranno sostituire completamente i prodotti importati, ma è necessario rilanciare il dibattito sul bisogno di coltivare e moltiplicare queste varietà locali» – afferma Karim Daoud, agricoltore e membro di Synagri, la seconda Unione agricola del Paese.

Sostiene l’iniziativa anche Rim Mathlouthi, Presidente dell’Associazione tunisina per la permacultura ed attivista per la riabilitazione dei semi che un tempo facevano la ricchezza del suolo della Tunisia. «Educhiamo, rendiamo visibili gli agricoltori come Youssef e mettiamoli in contatto con gli altri durante la celebrazione annuale del semi di contadini. L’obiettivo è preservare un’agricoltura che è praticamente scomparso negli anni ’70 a causa dell’arrivo dei semi ibridi stranieri, presumibilmente più efficienti, ma molto esigenti in termini di fertilizzanti ed altre problematiche.»

Sabato, 26 marzo 2022 – n° 13/22

In copertina: Foto: Bru-nO/Pixabay 

Condividi su: