mercoledì, Ottobre 16, 2024

Cultura

La giornalista dimenticata

Lea Schiavi, antifascista, assassinata dal regime

di Ettore Vittorini

Lea Schiavi, è stata una figura eccezionale per i tempi in cui ha vissuto. Durante il fascismo era una delle poche giornaliste italiane che si occupava di politica, mentre le colleghe scrivevano di gossip, di moda o nella rubrica delle lettere. Venne fatta uccidere dal regime e la storia della Resistenza l’ha ignorata. Ignorata perché non apparteneva a nessun partito antifascista ma ugualmente amava la democrazia e la libertà. Si ricordò di lei, invece, il governo degli Stati Uniti – nel 1996 – quando il suo nome fu inciso sul monumento eretto nel cimitero di Arlington (Washington), per ricordare i 934 giornalisti uccisi mentre esercitavano il loro lavoro di corrispondenti di guerra.    

Lea era nata nel 1907 a Borgosesia (Novara), vicino al lago Maggiore. Trasferitasi a Torino, dopo la laurea si dedicò subito al giornalismo, la sua passione. Per questo, nel 1936, si trasferì a Milano ospitata dal fratello Giovanni. Incominciò a lavorare per una casa editrice – l’Istituto editoriale moderno – che pubblicava manuali del ‘saper vivere’. Per un certo periodo si trasferì a Roma, attratta dalla capitale, e qui conobbe il giornalista sessantenne livornese, Guelfo Civinini, inviato del Corriere della Sera, che la presentò negli ambienti che contavano di più. Ella manifestò subito il suo carattere di ragazza esuberante, piena di curiosità, desiderosa e pronta a imparare il mestiere di giornalista e, nello stesso tempo, ad approfondire la sua cultura. Collaborò al Tempo e poi al Messaggero, ma tornò presto a Milano per essere assunta su segnalazione di Civinini, all’Ambrosiano, un quotidiano milanese fondato dal Movimento futurista che, seppur nei limiti imposti dalla dittatura, era moderno, critico verso certi ambienti fascisti. Vi collaboravano i più noti scrittori, pittori, architetti, intellettuali del tempo: Carlo Carrà, Fortunato Depero, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Carlo Emilio Gadda, Enrico Falqui e tanti altri.

Lea si occupò di critica teatrale e cinematografica e i suoi articoli ebbero successo. Ma proprio nell’ambiente giornalistico nacque la sua avversione per il regime, sentimento che non nascondeva. Una nota informativa del 1938, trovata dopo la guerra al Ministero degli Interni e destinata al questore di Milano, riferiva di un pranzo insieme a un gruppo di colleghi nel noto ristorante Bagutta, durante il quale la “signorina Schiavi rivolgendosi ad alcuni commensali – tra i quali un collega del Corriere e uno della Gazzetta dello Sport – definì il Duce un muratore e il Fueher un imbianchino, tra l’approvazione di tutto il gruppo”.

In quei giorni era in corso la visita di Hitler in Italia. Ovviamente la polizia aveva informatori anche nei ristoranti. Poteva essere un cameriere o un altro giornalista. L’informatore aggiungeva nella nota: “Fate sorvegliare questo tavolo”. Nel dicembre dello stesso anno un’altra nota riferiva che la signorina Lea Schiavi, in occasione del comizio di Mussolini, a Verona, aveva fatto discorsi ironici e malevoli apprezzamenti nei suoi confronti. Insomma non aveva ‘peli sulla lingua’; parlava troppo con molta ingenuità. Aveva maturato una nuova visione della vita; avvertiva un’insofferenza crescente per l’Italia dei gerarchi, delle adunate oceaniche e per le leggi razziali appena varate.

Ciononostante non ebbe fastidi da parte delle autorità. La sua cartella presso il Ministero degli Interni si riempiva di rapporti, ma le informative a parte quelle di Milano, non erano negative. Un rapporto inviato dal questore di Roma il 14 febbraio del 1939 diceva: “Non ha precedenti sfavorevoli; non risulta che durante la sua permanenza in questa città abbia dato luogo a rilievi in linea politica”. La tenevano d’occhio come migliaia di italiani. Un altro rapporto diceva: “A Roma dove scende all’albergo Savoia, viene per recarsi a Cinecittà. Di recente ha chiesto un’intervista a Vittorio Mussolini” (figlio del duce, n.d.r.).

Il 10 maggio del ‘39, quando ormai la guerra era alle porte, finalmente venne esaudito il suo sogno di giornalista. L’Ambrosiano la mandò a Belgrado come inviata. Il direttore le raccomandò di scrivere articoli di costume e di storia, non politici per non irritare il governo jugoslavo. A Belgrado incontrò molti colleghi stranieri con i quali poté confrontarsi e discutere liberamente. Venne a conoscenza della persecuzione degli ebrei in Germania. Scrisse un articolo sugli ebrei che vivevano in Jugoslavia, parlando bene di quella comunità scacciata secoli prima dall’Inquisizione spagnola. 

Non affrontò direttamente il tema contemporaneo della questione ebraica, ma con molte allusioni vi arrivò ugualmente. Lo scritto non passò inosservato fra le trame della censura fascista. Non esistevano motivi apparenti per diffidarla, ma un rapporto su quell’articolo fu inserito nel suo fascicolo presso il ministero degli Interni.

Comunque i suoi articoli di costume piacevano molto e così dalla Jugoslavia fu mandata in Romania, mentre la guerra era scoppiata. A Bucarest conobbe Winston Burdett, un inviato americano della CBS, la più importante rete radiotelevisiva statunitense. Dopo un primo contrasto dovuto a questioni di lavoro, tra i due nacque un grande amore. A Bucarest, dove ormai comandava un regime fascista filotedesco, i due frequentavano il loro ambiente e un gruppo di intellettuali dissidenti rumeni. Lea ormai non poneva più freno alle sue critiche contro l’Italia e la Germania. E c’erano tante orecchie intorno che l’ascoltavano e andavano poi a riferire.

La coppia, ormai inseparabile, si sposò nel luglio del ‘40 nella chiesa cattolica di Santa Sofia. Un amico statunitense di Burdett, disse: “Credo la ami alla follia e ne sia ricambiato”. Un giorno al ristorante un’amica rumena di Lea le rimproverò di parlare troppo, di esporsi dicendo certe cose sull’Italia in presenza dei suoi connazionali che risiedevano a Bucarest. Lea rispose che non aveva paura e che, inoltre, aveva sposato un americano. “Possono ritirarti il passaporto italiano”, le disse; “e io ho quello americano”, rispose.  In Italia ormai la sua posizione politica era nota e le venne imposto di rientrare. Lei si rifiutò e intanto venne licenziata dall’Ambrosiano.

Il giornalista Winston Burdett

Dalla Romania marito e moglie furono espulsi e tornarono a Belgrado. La permanenza nella capitale jugoslava durò poco. A Burdett e a un altro collega statunitense del New York Times, fu proibito di usare il telefono internazionale: significava che i loro articoli dovevano passare attraverso la censura. Quel provvedimento era la premessa per l’espulsione. La Jugoslavia cui i venti di guerra si avvicinavano pericolosamente, pur essendo un regno ‘amico’ dell’Italia fascista e simpatizzante per la Germania, riteneva che mettendo a tacere i giornalisti dei Paesi democratici poteva tenere lontane eventuali invasioni. Invece poco dopo fu invasa da italiani e tedeschi. I primi si presero tutta la Slovenia, annettendola all’Italia e trasformandola in capoluogo di provincia. I secondi occuparono brutalmente il resto del Paese e lo usarono per poter entrare in Grecia e occuparla in pochi giorni, cosa che gli italiani non erano riusciti a fare.

 A Lea e Winston non rimase che passare in Turchia, Stato neutrale, e trasferirsi ad Ankara dove il marito continuò a mandare corrispondenze per la Cbs mentre Lea per un periodico americano, la Transradio Press. Un amico di Burnett, Carl Randau, conservò una lettera inviatagli da Winston. “Lea possiede molta esperienza come scrittrice, giornalista e fotografa; è veramente un portento e io la amo”. Lea oltre a scrivere faceva propaganda antifascista tra gli italiani residenti in Turchia.

Ormai all’ambasciata italiana ad Ankara la conoscevano bene, a tal punto che dopo la guerra fu trovato un rapporto, risalente all’agosto del ‘41, dell’agente del Sim (il Servizio segreto militare), capitano dei carabinieri, Ugo Luca, che lavorava presso l’ambasciata come addetto commerciale. “Ci risulta che lavori per giornali americani e che faccia propaganda antifascista.  Al Cairo dicono che sia legata all’Intelligence Service e che abbia aderito al Free Italy Movement che alcuni elementi antinazionali hanno costituito a Londra. Quindi bisogna intensificare i controlli sui signori Burdett, soprattutto dopo l’occupazione anglo-sovietica dell’Iran”.

Nell’ottobre Winston venne trasferito dalla Cbs a Teheran e partì immediatamente con Lea. Anche in Iran la giornalista italiana si fece conoscere e coltivò molte amicizie altolocate. Tra queste diventò sua amica una certa Zina – una donna bellissima – amante del nuovo Scià Reza Pahlevi. Lea fece propaganda antifascista e, nello stesso tempo, contribuì economicamente al sostegno degli italiani rimasti senza mezzi e impossibilitati a rimpatriare.

Verso la metà di aprile del ‘42, il marito di Lea fu mandato per lavoro in India e lei non lo accompagnò perché voleva recarsi in Kurdistan per un servizio fotografico. Prese un’auto a noleggio con l’autista, accompagnata da Zina e da un signore iraniano, loro amico. Partirono il 23 di aprile, passarono la notte a Isfahan e ripartirono il 24 mattina verso la regione del Kurdistan. Nel tardo pomeriggio, prima di arrivare a Tabriz, l’auto fu fermata da alcuni guardiani della strada, una specie di polizia stradale. Sembrava un normale controllo, ma uno di loro chiese chi fosse la signora Schiavi e quando Lea si fece riconoscere, prima spararono in aria per fare allontanare gli altri passeggeri, poi uno di loro sparò direttamente a Lea, colpendola vicino al cuore, e scomparvero. Gli altri passeggeri risalirono in macchina terrorizzati e puntarono verso un convento di suore cattoliche che l’autista conosceva. Ma la giornalista italiana morì prima di arrivare, dissanguata. Venne sepolta nel piccolo cimitero del convento dove ancora giace, in una tomba la cui lapide porta tuttora scolpita l’iscrizione fatta fare dal marito. Winston, che si trovava in India venne informato da un dispaccio della Cbs. Partì subito per l’Iran e da Teheran si recò al monastero dov’era stata sepolta la moglie. Fece scrivere sulla lapide: “Lea Schiavi Burdett, nata a Borgosesia, Italia, nel 1907, morta presso Tabriz il 24 aprile 1942”. Questo in inglese, poi seguiva in italiano la frase: “Cara Lea ti abbraccio teneramente”.

Winston fece una denuncia alla polizia iraniana sottolineando che un conoscente, tale ingegner Lombardi, funzionario dell’ambasciata italiana di Ankara incontrato a Teheran dopo la morte di Lea, gli aveva confessato di aver assistito per due volte a un colloquio tra il capitano Ugo Luca e l’ambasciatore, durante il quale il primo si vantava di aver organizzato l’assassinio di Lea. Il funzionario iraniano gli disse che non poteva far niente. Qualche giorno dopo venne arrestato il presunto assassino, il quale disse di aver sparato per sbaglio e venne rilasciato. Burdett nel 1945, a fine guerra, denunziò Luca alla magistratura italiana, ma il procuratore archiviò la pratica; non ascoltò neanche il capitano Luca. Questi fu promosso colonnello e mandato in Sicilia a comandare la lotta contro il banditismo. Affermò che il bandito Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. In realtà l’autore dell’assassinio fu il cugino Gaspare Pisciotta.   

In copertina: Lea Schiavi

Sabato, 26 dicembre 2020

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