martedì, Marzo 19, 2024

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Etiopia: vita breve di una democrazia tra eccidi e carestia nella guerra del Tigray

Il vero volto del Premier, Nobel per la pace

di Ettore Vittorini

Dalla fine dello scorso anno l’Etiopia è precipitata in una sanguinosa guerra civile scoppiata quasi all’improvviso. Ha causato centinaia di morti, violenze di ogni, tipo, donne stuprate, fame e popolazioni rifugiatesi in Sudan. Il focolaio di questo conflitto è la regione del Tigray, situata a Nord e confinante con l’Eritrea, alleata del governo centrale. Le cause sono apparentemente incomprensibili per gli osservatori occidentali e per una buona parte del popolo etiope. Per trovarne una relativa spiegazione, bisogna tornare indietro di pochi anni.

Nel dicembre del 2019 Abiy Ahmed, Primo ministro dell’Etiopia, fu insignito del premio Nobel per la pace per i meriti acquisiti durante il primo periodo di Capo del governo del suo Paese. Alcuni ministeri erano guidati da donne; aveva liberato tutti i prigionieri politici; allontanato i rappresentanti del vecchio regime; rilanciato l’economia aprendo ai capitali stranieri; siglata la pace con l’Eritrea, ponendo fine a una guerra che durava da decenni.

Il suo slogan era ‘Make Etiopia great again‘ – Facciamo l’Etiopia di nuovo grande – e il Paese sembrava avviarsi verso quell’obiettivo. Addis Abeba – la capitale – era stata trasformata in una metropoli con grattacieli, una metropolitana, industrie a capitale straniero; i primi ad investire erano stati i cinesi, chiamati dal precedente regime, che avevano tra l’altro ammodernato la antica ferrovia che univa Addis Abeba col porto di Gibuti.

L’ Etiopia di oggi, una Federazione con 110 milioni di abitanti, deriva da un impero di religione cristiano-copta, sorto mille anni fa e rimasto l’unico territorio africano a non subire la colonizzazione, tranne i cinque anni del nefasto dominio italiano tra il 1936 e il ’41. Nel 1975 l’ultimo imperatore Hailé Selassié fu mandato in esilio dopo un colpo di Stato militare. Nel 1977 il generale Menghistu Hailé Mariàm assunse il potere proclamando la Repubblica Popolare di Etiopia – con l’appoggio dell’Unione Sovietica – e imponendo una feroce dittatura durata sino al 1991.

Ma da un anno a questa parte il cammino democratico del Paese, a causa di quest’ultima guerra, ha subito un arresto e il tanto acclamato premier ha perso il favore del suo popolo e quello delle potenze occidentali, come gli Stati Uniti, che adesso rifiutano gli accordi commerciali e gli investimenti. Per quanto riguarda Ahmed – colpevole della feroce repressione – coloro che lo avevano proposto per il Nobel, chiedono adesso che gli venga ritirato.

Una delle cause della guerra sta proprio nelle riforme democratiche forse troppo frettolose, che hanno risuscitato i conflitti tra le tante etnie – ottanta, con altrettante lingue – retaggio della antica politica imperiale. La libertà ha dunque riaperto i contrasti tra le due più potenti – gli Amhara e i Tigrini – ai quali si sono aggiunte le rivendicazioni delle popolazioni non raggiunte da quel benessere che aveva toccato Addis Abeba e le altre grandi città.

Nel Tigrai si erano concentrati gli avversari di Ahmed, i dirigenti del Fronte di liberazione (Tplf), che il premier aveva allontanato dalla capitale. E proprio a Makallé – il capoluogo della regione – sono scoppiati i primi scontri seguiti dalla richiesta dell’indipendenza da parte dei vertici locali.

Il premier ha risposto con estrema durezza mandando l’esercito che si è macchiato di crimini inauditi contro i civili e gli aerei che hanno bombardato interi villaggi. In appoggio del governo di Addis Abeba sono intervenute anche le truppe della confinante Eritrea. Un rapporto di Amnesty International accusa le forze eritree di aver ucciso centinaia di civili nella città tigrina di Axum.

Ma il Fronte di difesa del Tigray è riuscito a reagire contro i militari governativi cacciandoli da Makallé, catturandone seimila e minacciando di arrivare sino alla capitale. Cosa che avevano già fatto con successo nel 1991 contro il dittatore Menghistu.

La regione, che rimane territorialmente isolata, si trova in una drammatica situazione umanitaria: la carestia si è abbattuta sulla popolazione, mentre il governo di Addis Abeba non permette alle organizzazioni internazionali di mandare aiuti. Facendo bloccare le colonne che trasportano derrate alimentari e medicinali, Ahmed utilizza la fame come arma di guerra. E nello stesso tempo fa arrestare volontari delle ONG – tra cui l’italiano Alberto Livoni – missionari e membri dell’ONU.

Le nazioni occidentali, che hanno ridotto il personale delle rispettive ambasciate e invitato i cittadini stranieri ad abbandonare il Paese, per adesso restano a guardare. Considerano il conflitto un grave episodio interno provocato dalla frammentazione etnica del Paese e dall’ inaspettato voltafaccia di un premier che era stato insignito del Premio Nobel. Questa volta “l’imperialismo capitalistico” non c’entra.

Sabato, 13 novembre 2021 – n° 42/2021

In copertina: profughi tigrini fuggiti dalla guerra – Foto dal sito Caritas Italiana

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