venerdì, Aprile 19, 2024

Notizie dal mondo

Vesna Šćepanović

Dalla guerra nei Balcani all’impegno sociale e politico in Italia – parte seconda

di Laura Sestini

Riprende la nostra intervista a Vesna Šćepanović, con una seconda ed ultima parte. I tratti saranno completamente differenti dalla sua narrativa precedente, poiché si torna indietro nel tempo, a ricordi personali della guerra balcanica e lo sconforto del presente, di una realtà tracciata dalla politica locale ed anche europea di questi ultimi 30 anni.

Ci descrive sinteticamente la situazione politico-sociale attuale della ex-Jugoslavia, con la divisione in più nazioni?

Vesna Šćepanović – Se potessi farlo “sinteticamente” sarebbe più semplice per i lettori. È impossibile “sintetizzare” qualsiasi contesto, almeno per me. Vale per ogni altro Paese. In realtà è più semplice di come si legge nella stampa italiana a volte. Le lingue jugoslave sono state più di una, esistevano le lingue maggioritarie sloveno, serbocroato, macedone, poi molte lingue delle minoranze come albanese, slovacco, ungherese, romeno, italiano, rom, ecc. Coesistevano tutte queste, più di venti lingue per decenni, secoli, in armonia. Poi anche le lingue cambiano, si frammentano, si escludono, si colorano di nazionalismo e di guerra. Le lingue non sono neutre. Sono influenzate dagli eventi politici, nazionalistici, reazionari e culturali.

Oggi dopo 30 anni di lavoro in lingua italiana non ho più il polso della realtà balcanica, anche se conosco bene problemi e complessità. I soggetti politici sono cambiati in parte, le difficoltà e le nefandezze sono rimaste. Non ho smesso di seguire alcuni movimenti democratici, alcuni/e attiviste, letterati, organizzazioni delle donne, teatri, leggo certi giornali, singole voci… E ci sono le idee, le opere, personaggi molto belli ed interessanti.

Cerco di non farmi scoraggiare dai poteri nazionalistici, sempre più clericali, ancora accecati di odio; cerco di non farmi abbattere dai Governi completamente corrotti e mafiosi, criminali; dalla svendita, dall’abbandono delle fabbriche, dallo spopolamento dei paesi e dalle migrazioni delle giovani generazioni che stanno lasciando il Paese per lavorare in Germania e in Austria in assenza di opportunità; dall’impoverimento dell’intera Regione. I nostri piccoli staterelli delirano, sono in balìa dei poteri locali e dei poteri internazionali, delle multinazionali turche, russe, cinesi. Le risorse naturali letteralmente si saccheggiano e si devastano, si svendono i boschi, i fiumi, le spiagge, si fa lo stoccaggio dei rifiuti. Inoltre la frammentazione dei Balcani non è ancora completata. Le nuove guerre inutili e violente occupano i nuovi spazi massmediatici e politici. Nessuna volontà politica di fermare questa autodistruzione, produzione di armi, militarismi dei potenti, le guerre. Gli scenari in Ucraina mi tolgono il respiro. L’Europa ancora non vede la Bosnia e i Balcani orientali come parte integrante del Continente. Esiste sempre disprezzo e il rapporto di potere di chi domina: questo ha le sue ragioni storiche. Le rotte europee, che fa comodo chiamare “le rotte balcaniche”, che percorrono le migliaia di persone in fuga dal Pakistan, Afghanistan, Siria, Iraq sono create sempre dallo stesso progetto razzista, disinteresse e violenza dei poteri di Bruxelles, da questo gruppo di 27 Paesi chiamato Unione Europea.

Il noto libro ”Il centro del mondo”, al quale torno spesso, del drammaturgo sarajevese Dzevad Karahasan, che raccontava la città di Sarajevo ed i secoli della convivenza pacifica, si potrebbe rinominare ora, dopo 30 anni, “Le periferie del mondo”. Questo siamo diventati. Quanto rammarico, perché gli stessi poteri europei hanno abbandonato questa area geografica nel 1991, poi nel 1995 e infine nel 2022. Lasciare fuori i confini europei un’ intera regione dopo una guerra durata 10 anni, si può? I territori che nella Seconda guerra mondiale hanno contribuito alla lotta contro il Nazismo e Fascismo con più di un milione di vittime, abbandonati a se stessi. Il dolore più grande lo porto per la Bosnia e l’Erzegovina che hanno subito l’assedio, i genocidi, le vittime, gli stupri delle donne. La Bosnia lasciata sola, fuori dall’Unione Europea, nelle mani dei poteri post bellici e corrotti, è stata una grande delusione politica, culturale ed umana. Il politico attuale ultra nazionalista Milorad Dodik sta concludendo il lavoro criminale di Mladic e di Karadzic. Ora dopo 30 anni, le destre si sono rafforzate, i gruppi mafiosi radicati, speculatori internazionali moltiplicati… non credo che sarà semplice cambiare il presente della Bosnia, del Montenegro, della Serbia.

Slovenia e Croazia, Paesi della ex Jugoslavia, sono nell’Unione Europea da anni e questi sono stati passaggi politici ingiusti, discriminatori, rispetto al resto dei Balcani. La Croazia aveva le sue responsabilità nei conflitti degli anni ‘90. Ed ha avuto spazi privilegiati, le porte spalancate.

Ci può reracconta perché ha deciso di lasciare il Montenegro, il suo paese di origine, e la sua esperienza verso l’Italia nel 1993?

La città di Dubrovnik è stata bombardata nel 1991, la zona di Konavle bruciata, Vukovar e tante altre realtà urbane, e soprattutto rurali, distrutte, molti morti e feriti. Vedere gli urbicidi, la morte dei civili, sentire l’impotenza, conoscere le notizie sui campi di concentramento, ascoltare delle torture, i massacri; sapere poi del genocidio verso la popolazione di tradizione musulmana, tutta quella violenza che è stata perpetuata sulle donne; in più i criminali di guerra formatisi nei luoghi a me cari, l’occupazione fatta dai militari serbo-montenegrini in diverse zone, i crimini dei gruppi paramilitari, tutto l’orrore commesso dai poteri nazionalisti, è stato troppo. Molti sono andati via negli anni ‘90, tanti sono rimasti ad opporsi al progetto politico di frammentazione del Paese e hanno dietro le spalle 30 anni di lavoro e di lotta contro il nazionalismo e la corruzione. Penso ad alcuni attivisti, alcune testate indipendenti, molto gruppi civili e democratici come l’associazione Anima, i giornali Monitor, Vijesti, Mans.

Tutto quello in cui ho creduto fino al 1991, che mi ha circondato, era crollato in breve tempo, la macchina di guerra si era preparata dal ‘89 al ‘91. Sono rimaste le rovine nel senso ampio della parola. Simboliche e reali. Essere una giovane giornalista in una città in quell’epoca a maggioranza nazionalista verso croati, musulmani, albanesi – maschilista e patriarcale – non è stato semplice; mi sono opposta nella mia città ai poteri politici nazionalisti, ai caporedattori nazionalisti, alla società che diventava sempre di più xenofoba e accecata dall’odio. Vivevamo la banalità del male sotto tutti i punti di vista. Per me l’unico modo di non vivere in quella situazione insostenibile era di andarmene. Rischiavo certe volte di essere aggredita, gli episodi che poi sono capitati tante volte ai miei colleghi e amici di allora lo dimostrano.

In quegli anni lo Stato del Montenegro mandava i soldati sul confine croato e i gruppi paramilitari commettevano i crimini in Bosnia. Non era possibile accettarlo allora e non lo è neanche oggi. Alla domanda “perché la guerra jugoslava”, le guerre, come è stato possibile pensare quel male e poi praticarlo rimane indicibile. Oggi me la pongo nella stessa maniera sull’Ucraina. Ieri sulla Siria, sull’Afghanistan, sulla Palestina, l’Iraq. Rimane un fatto difficile da concepire, tra la banalità del male e un preciso progetto politico e nazionalista, strategico dei poteri guerrafondai nel mondo. Mi interrogo sulla violenza insita nell’essere umano, ancora capace di commettere i crimini di guerra, violenza nel Mar Mediterraneo, violenza ai confini europei e non solo; pensare ai centri di accoglienza, che sono forme di campi di concentramento.

Come le donne straniere di cui scrive, lo è stata altrettanto lei una straniera, magari non vista proprio di “buon occhio” al suo arrivo. Come è stata la sua esperienza italiana in questo senso?

La Memoria è fragile, si dimenticano molti momenti cruciali della storia individuale e collettiva. Spesso si reinventa, si cambia… si vivono doppie assenze e doppie presenze, ci insegnano Fanon e Sayad. Ora a distanza di anni direi che ci sono stati molti stereotipi da tutte e due le parti, forse è normale. Non è semplice reinventare la vita in una nuova lingua, città, Paese, in un sistema politico giuridico e culturale diverso. Avevo 28 anni, non programmavo di andarmene per sempre. Tutto richiedeva impegno, studio della lingua, molte energie, inserimento lavorativo. Non saprei rispondere in modo puntuale, non ci sono state esperienze particolarmente negative, anzi… Ho immaginato che nei paesi democratici, molti problemi riguardo i diritti delle persone fossero già risolti, e questa è stata una grande illusione. Per tanti anni ho contribuito alla lotta per i diritti dei migranti, per la cittadinanza, per separare il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro, contro lo sfruttamento dei migranti nei campi in cui si muore come schiavi, per i diritti delle donne straniere impegnate nei lavori di cura. Dopo 30 anni la politica è peggiorata, forse la società civile un po’ è anche cambiata, ma rimangono le forti mancanze rispetto i diritti delle persone non italiane. Migrare rimane un reato, questa è una di tante incostituzionalità, per non parlare di numerosi nodi che conosciamo tutti.

Una buona parte di rabbia me le sono tenuta dentro a lungo. Non porto rancore verso i singoli cittadini, ma verso le politiche istituzionali che sono restrittive, discriminatorie, ingiuste, razziste; verso le persone afro-italiane ancora di più. In quanto bianca ed europea non penso di aver avuto mai grandi problemi come le mie amiche e colleghe di origini africane. Il razzismo è presente da sempre, oggi non è semplice, per chi è di origine africana, lottare per l’inclusione e non subire questo sguardo razzista e sessista. La piaga della clandestinità e della cosiddetta irregolarità creata dai partiti di destra e dalle leggi razziste come il decreto Bossi-Fini è inaccettabile per un Paese democratico. Sappiamo che nelle case italiane queste persone “clandestine” spesso svolgono i lavori di assistenza famigliare.

Tutte le conseguenze del colonialismo italiano e del Fascismo le viviamo ancora oggi. Non si è in grado di accettare la presenza dei 4 milioni di migranti pari alla cittadinanza italiana. Per 15 anni circa nessuno ha il diritto di votare i propri rappresentanti, poi con difficoltà e un lavoro in regola si riesce ad ottenere la cittadinanza. L’Italia si è dimenticata della propria storia, ha rimosso la memoria migrante, le responsabilità verso le proprie colonie Etiopia, Somalia, e Libia tra l’altro.

Disapprovo tutta la politica sulla migrazione in questi 30 anni, politica razzista anticostituzionale. Quante morti di africani in questi anni? Si possono pagare le tasse allo stato italiano per 15 anni e non avere la cittadinanza italiana, perdere il permesso di soggiorno, subire altre ingiustizie, essere rimpatriati o rinchiusi? Questo è la realtà di molte persone che vivono sul territorio italiano. Non si possono continuare a discriminare i giovani figli dei migranti nati in Italia, e umiliarli con lo status di “stranieri” perché non lo sono! Se ne contano circa 800 mila. Sono Italiani, sono cresciuti qua e sono scolarizzati nelle scuole italiane. Abbiamo una legge fascista, degli anni Trenta che non è cambiata ancora. In vigore dagli anni ‘30, lo “ius sanguinis”, questo non dovrebbe succedere in un paese democratico come l’Italia. Ho avuto di sicuro molte difficoltà nei primi anni soprattutto linguistiche e la lingua è lo strumento più importante in un paese altro dove vorresti vivere e lavorare. Non avevo all’epoca un progetto di vita in Italia ma volevo restare solo un po’ di anni fino a quando la situazione non si sarebbe stabilizzata nel mio Paese. Poi la vita prende il suo corso e tutto cambia. Il ritorno è altrettanto complesso. Si cambia vivendo fuori e non si riesce a ricreare una rete sociale, il lavoro, dopo anni di assenza.

E’ stata una lotta di diversi anni, occupare gli spazi e narrare le storie, costruire i momenti insieme ai singoli e ai piccoli gruppi, cercare gli sbocchi lavorativi. E’ stato soprattutto l’amore verso la storia, l’arte e la cultura italiana e poi le amicizie acquisite, davvero uniche, l’amore verso la lingua, per questo non è stato difficile sentirmi di nuovo a casa, pur avendo una casa dall’altra riva del mare.

Tartit, gruppo musicale tuareg del Mali
Foto: courtesy Vesna Šćepanović

Quanto interesse dimostrano gli Italiani verso la letteratura balcanica?

La città di Torino sta attraversando dei momenti complessi dal punto di vista culturale, economico, politico. I nostri spazi e i luoghi di cultura si sono svotati durante l’epidemia e non è semplice riprendere i fili delle attività letterarie ed artistiche. Esiste sempre, a Torino e in tutte le città italiane una parte della cittadinanza che resiste all’appiattimento e fa le cose molto belle ed interessanti, cura le reti con il resto del mondo. Esiste per fortuna un po’ di curiosità per gli altri territori, per i Balcani nello specifico: in questo senso c’è anche curiosità per la letteratura. Sono in ogni caso lettori di nicchia e si potrebbe lavorare molto di più nelle scuole partendo dalle letterature internazionali. A Torino ci sono diversi gruppi pacifisti, associazioni che sono state attive negli anni ’90 e che hanno partecipato alle Manifestazioni di pace e di solidarietà. Ci sono le “Donne in nero”, ed altri comitati e organizzazioni che sono attivi ancora oggi, molti hanno ripreso le attività con i migranti, persone in cammino lungo la cosiddetta rotta balcanico-europea. Mi ricordo uno dei primi gruppi che ho conosciuto erano i “Beati costruttori di pace” – non comprendevo questo nome allora – e dopo ce ne furono altri. Gli incontri sui letterati della ex Jugoslavia, dei Balcani in generale, suscitano interesse e curiosità. In questi anni molte persone, soprattutto i giovani hanno viaggiato oltre Adriatico e hanno conosciuto alcuni luoghi dell’altra sponda; conosco diverse persone che hanno studiato serbo-croato-bosniaco-montenegrino all’università, oppure hanno imparato la lingua viaggiando. Ci sono diverse reti interessanti attive ancora dopo tanti decenni, in Alto Adige, Trieste, Venezia, Vincenza, Brescia, Torino. E poi l’ottimo sito Osservatorio sui Balcani e Caucaso.

Sono stati pubblicati molti libri, saggi, narrativa, poesie: uno dei primi di Nicole Janigro “Dizionario di un paese che scompare”. Esiste una certa sensibilità, direi la yugonostalgia italiana di un tempo che non tornerà. A volte, alla percezione di conoscere i luoghi, la storia non risponde alla conoscenza reale e approfondita.

Purtroppo lo Stato italiano ha fatto di tutto per indebolire la cooperazione internazionale e la solidarietà tra i paesi nel Mediterraneo. Non sono stati più sostenuti molti progetti, anzi hanno denigrato ONG presenti nel Mar Mediterraneo. Alcune ONG sono letteralmente diventate “il male più grande” del Paese grazie alla stampa, media e alla politica delle destre razziste. Alcune di esse sono anticostituzionali.

Il mondo è sotto scacco dalla pandemia, qualcosa che – improvvisamente – accomuna tutti gli abitanti della Terra sotto uno stesso tetto, senza distinzione di nazionalità e di lingua. Che insegnamento dovremmo imparare da questa esperienza?

L’epidemia, o sindemia, provocata dal Covid-19 è stata una tragedia per molti paesi, compresa l’Italia. Nel primo anno avrei ancora pensato e sognato di poter vedere qualche cambiamento politico nel mondo, spinte solidali nei luoghi della politica europea. Avevamo bisogno della cura dei singoli e della società, delle persone vulnerabili nel senso più ampio del termine, invece i divari nel mondo si sono ingranditi, le differenze tra i ricchi e i poveri si sono aggravate. Le multinazionali farmaceutiche hanno governato la politica. Il mondo non si è riappacificato come qualcuno ha immaginato, anzi si è ancora allontanato da se stesso, dalla condizione umana. Neanche le fragilità durante l’epidemia, neanche la morte ha fatto cambiare le scelte dei poteri. Oggi abbiamo le città sempre inquinate, ulteriormente devastate dai rifiuti e siamo sommersi dalle macchine. Questa è stata una realtà che conoscevamo dai libri, era necessario intraprendere cambiamenti ambientali, un’alternativa, una svolta…, invece niente, il capitalismo finanziario ha deciso per tutti. I vaccini vengono distribuiti solo all’Occidente, a chi paga bene. Il resto del Mondo non ha il diritto alle cure.

I più deboli sono rimasti abbandonati a se stessi. Il prezzo più alto lo hanno pagato gli anziani e i poveri, gli infermieri, i medici. Poi migliaia di persone rimaste senza reddito.

I ricchi, i potenti se la sono cavata come sempre. Spero che i giovani, di cui molti davvero in difficoltà (lo scopriremo nei prossimi anni), dopo questo periodo possano ritrovare la forza per lottare per il loro presente e per il loro futuro. Senza le lotte sociali, culturali e ambientali non si va avanti; anche se potrebbe risultare inutile opporsi all’ignoranza e ai poteri politici ed economici, alla violenza, alla distruzione dell’habitat e della natura, potrebbe essere complesso, ma è l’unica strada possibile da percorrere. Per cambiare il mondo ed evitare le guerre, per ragionare sui cambiamenti ambientali, dobbiamo soprattutto esprimere il dissenso ai poteri non democratici, lottare insieme in modo intersezionale e transnazionale e soprattutto tentare di immaginare ed aspirare ad altri mondi possibili.

Parte prima: https://www.theblackcoffee.eu/vesna-scepanovic/

Sabato, 26 febbraio 2022 – n° 9/2022

In copertina: Foto: courtesy Vesna Šćepanović

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