giovedì, Aprile 18, 2024

Economia, Italia

Moda low cost e inquinamento tessile

Cile pattumiera di Stati Uniti ed Europa

di Laura Sestini

Che fine fanno gli abiti che nei pochi mesi di tendenza stilistica restano invenduti ed escono immediatamente non solo dalle scintillanti vetrine dei negozi ma pure dai loro magazzini e dal mercato? Le tendenze moda sappiamo essere sempre più veloci e non tutta la produzione viene acquistata nonostante sconti e promozioni. Per le stagione successiva poi cambiano i colori e lo stile e tutto ricomincia daccapo.

Al-Jazeera – l’organo di stampa in ingese del mondo arabo – ha stimato che ogni anno circa 59 mila tonnellate di abiti che non possono essere più venduti in Europa e negli Stati Uniti finiscono in America Latina. Il porto di arrivo è in Cile, esattamente nella zona franca del Comune di Alto Hospicio, nella provincia di Iquiqua, situata nel nord Paese.

Di queste migliaia di tonnellate di abiti ‘fuori moda’ per gli occhi occidentali, solo meno della metà verranno realmente messe in circolazione tramite il passaggio rivenditore-acquirente, vendute a Santiago o trasferite nelle nazioni confinanti, mentre il rimanente – ciò che anche la moda latino-americana riterrà demodé – viene portato illegalmente, da anni, nel deserto di Atacama, l’area più arida del mondo a qualche centinaio di chilometri più a sud, e qui abbandonato.

Franklin Zepeda è un imprenditore che ha deciso aprire un’attività di contrasto – Eco Fibra – per affrontare queste nuove ‘dune’ del deserto cileno che ogni anno si innalzano sempre di più, cercando di evitare il disastro ambientale a causa delle fibre sintetiche, tossine e coloranti presenti nei capi della ‘moda veloce’, che non sono biodegradabili. La questione è stata finora completamente trascurata e nessuno ha intenzione di pagare trasporto e smaltimento di materiale che neanche le discariche accettano. La Eco Fibra – aperta nel 2018 – produce pannelli isolanti utilizzando indumenti di scarto.

Nella filiera della moda ormai è conosciuta la piaga del lavoro minorile o delle orribili condizioni di lavoro di milioni di lavoratori in tutto il mondo, mentre molto meno noto – e quasi totalmente ignorato – è l’inquinamento dovuto agli scarti dell’industria tessile, oppure della sua sostenibilità e l’impatto ambientale. Le stesse Nazioni Unite denunciano che per produrre un paio di jeans servono 7500 litri di acqua, ovvero ciò che una persona beve in sette anni. In totale, l’UNCTAD – la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo – stima che l’industria della moda utilizzi circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno, sufficienti a dissetare cinque milioni di persone.

Mentre è naturale pensare che il maggiore comparto inquinante al mondo sia quello dei trasporti, oppure l’industria, i report delle Nazioni Unite sottolineano che il settore della moda è ampiamente ritenuto essere al secondo posto nella lista delle filiere più inquinanti al mondo, subito dietro a quella petrolifera.

Nello stesso rapporto si è anche stimato che circa mezzo milione di tonnellate di microfibra finiscono negli oceani ogni anno per mano delle linee moda di bassa qualità e dei lavaggi in lavatrice. Ciò equivale a 3 milioni di barili di petrolio versati in mare, se comparati come inquinanti.

Per quanto riguarda il cambiamento climatico, la produzione di abbigliamento rappresenta dall’otto al 10% della produzione mondiale di emissioni di carbonio in più ogni anno: più di tutti i voli internazionali e marittimi combinati, riportano le Nazioni Unite.

Le fabbriche spesso scaricano anche sostanze chimiche di produzione nei corsi d’acqua locali trasformandoli a valle in comunità tossiche e inquinanti. Questo è particolarmente grave in luoghi come il Bangladesh e l’Indonesia, conosciuti come hub di produzione di tessuti economici.

Nel 2017 un documentario sull’inquinamento dei corsi d’acqua causato dalla filiera dell’abbigliamento low cost ha scoperto che le concerie stavano scaricando cromo tossico nei depositi idrici in Kanpur, in India. La sostanza chimica è poi finita nel latte di mucca e nei prodotti agricoli. Lo stesso è però accaduto nel 2021 a Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa, nel distretto conciario tra i più importanti internazionalmente, non per sottosviluppo ecosostenibile delle attività, bensì per negligenza di alcuni imprenditori e delle infiltrazioni mafiose per lo smaltimento dei rifiuti tossici.

In Cile, gli abiti rimasti invenduti vengono bruciati o sepolti, rilasciando tossine nelle falde acquifere sotterranee o nell’aria, gli accessori degli abiti, tipo le paillets ed i coloranti, percolano degradandosi, mentre le fibre non sono biodegradabili.

McKinsey – società internazionale di consulenza manageriale – ha stimato un continuo aumento del consumismo. Infatti il consumatore medio ha acquistato il 60% di vestiti in più nel 2014 rispetto al 2000, ovvero in linea con il raddoppio della produzione di abbigliamento tra il 2004 e il 2019 che la Fondazione Ellen McArthur ha rilevato.

Greenpeace Italia, nell’ambito della campagna ‘Detox my Fashion’ osserva che serva un modello che non scenda a compromessi sugli aspetti etici, sociali e ambientali, e contemporaneamente valorizzi e coinvolga i clienti, piuttosto che spingerli a comprare capi che poi non metteranno. I produttori andrebbero incoraggiati a creare pezzi che sono destinati a durare nel tempo e ad abbracciare pratiche veramente sostenibili. Anche scegliere cambiamenti e innovazioni nelle tinture e nelle fibre può aiutare. “Come consumatori, invece, solo cambiando la nostra mentalità al posto degli abiti saremo in grado di effettuare una trasformazione effettiva.”

Ma fino ad allora, le dune tossiche nel deserto del Cile continueranno a crescere.

Sabato, 20 novembre 2021 – n° 43/2021

In copertina: montagne di rifiuti tessili – Foto Confartigianato_Prato

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