domenica, Aprile 28, 2024

Letteratura

Magog

Vedere con gli occhi dei migranti

di Laura Sestini

Pubblicato nel 2022, Magog è il primo libro di narrativa pubblicato da Paolo Ponzù Donato, solitamente intento a scrivere testi scientifici. Di formazione letteraria, filologo specializzato nella letteratura umanistica del Quattro e del Cinquecento, attualmente sta lavorando alla sua terza monografia.

Magog è un romanzo il cui lessico “tradisce” le competenze linguistiche dell’autore che nel testo inserisce termini accurati, talvolta anche meno consueti, seppur sia di grande scorrevolezza nel suo totale, dinamico, con un tocco delicato e leggero anche nella descrizione delle scene più crude della trama.

I protagonisti sono due giovani migranti, Nana e Amira, che attraversano drammaticamente il Mediterraneo con un barcone, per ritrovarsi in Calabria, prima in un Cas – Centro di accoglienza straordinaria – e infine nella baraccopoli di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, dove scopriranno fino in fondo la realtà della vita da immigrati.

Di origini siciliane, Ponzù Donato, con il suo primo volume di narrativa riceve il Premio letterario nazionale dedicato al poeta lametino Dario Galli.

Incuriositi già dal titolo del romanzo, abbiamo chiesto all’autore come sia nata in lui l’ispirazione per lanciarsi nel mondo della narrativa, da dilettante, come egli stesso si descrive.

Quale scintilla ha generato la stesura di “Magog”?

Paolo Ponzù Donato: – Non credo che ci sia stata una sola “scintilla”, ma piuttosto un accumulo di informazioni, sensazioni ed eventi che alla fine mi ha spinto a mettere tutto nero su bianco, a cercare delle connessioni, a formare una storia. Io vengo, per parte di padre, da una famiglia di antica tradizione marinaresca: diversi miei antenati sono morti in mare e in mare riposano. Per questo ogni tragedia del mare mi tocca profondamente, specie quando ad essere coinvolti sono dei migranti, gente che spesso il mare non l’aveva mai visto in vita propria. E poi ci sono altre storie che mi piaceva raccontare. Quella di Riace, soprattutto, le cui sorti – lo si voglia o no – si legano indissolubilmente a quelle di Mimmo Lucano, che ho avuto il privilegio di conoscere grazie a mia sorella Simona, impegnata a sostenere questo moderno Don Chisciotte nella sua battaglia contro i mulini a vento. E poi Peppe Valarioti, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel 1980, che con un coraggio non dissimile da quello di Peppino Impastato ha osato affermare che la terra deve tornare a chi la lavora, in una terra, la Calabria, che paga ancor oggi un prezzo inaudito alla schiavitù del caporalato gestito dalle ‘ndrine.

Poi c’è una scintilla, diciamo, più tecnica. Nel senso che mi piaceva scrivere una storia di migranti in cui fossero i migranti a raccontare le proprie vite, i propri sogni. Mi sono detto: perché non ribaltare la prospettiva? Raccontare di loro, ma attraverso loro raccontare di noi, noi attraverso i loro occhi. Io sono cresciuto con Edgar Allan Poe. Ne “I delitti della Rue Morgue”, Auguste Dupin sostiene che la migliore visione è quella laterale, con la coda dell’occhio, rispetto a quella diretta. Ecco, ho voluto, nel mio piccolo, privilegiare questo sguardo marginale, atipico, alla nostra civiltà e alla sua sostanziale mancanza di senso. Uno sguardo anche un po’ sarcastico, alla Flaiano di “Un marziano a Roma”.

Si è ispirato a personaggi immaginari, oppure ad una sintesi di più individui che lei ha incontrato davvero?

P.P.D: – La vicenda ovviamente, per come è strutturata, è immaginaria, ma condensa numerose storie e fatti realmente accaduti.

Alcuni anni fa ho conosciuto un ragazzo del Ghana molto simile a Nana, il protagonista del romanzo, che era fuggito più volte dai centri d’accoglienza in Sicilia. Mi raccontò che aveva perduto suo padre e suo fratello prima di raggiungere Lampedusa. Era finito a raccogliere pomodori nel ragusano, dopodiché era stato arrestato in quanto clandestino, era evaso nuovamente e viveva di espedienti, alla macchia, dato che aveva ricevuto il foglio di via. Un altro ragazzo, questa volta del Mali, mi disse di aver partecipato alla rivolta di San Ferdinando e che lì aveva conosciuto una ragazza che l’aveva reso padre. Dopo qualche tempo, però, la ragazza lo lasciò, portando con sé il bambino, probabilmente in Nord Europa, per sfuggire alla vita infernale della piana di Gioia Tauro e alla schiavitù dei caporali.

Queste due storie compongono in sostanza la vicenda di sfondo. Ma ce ne sono altre, più note, da cui ho tratto ispirazione. C’è, ad esempio, la storia di Saibù Aiwa, diciannovenne del Togo che nell’inferno di Rosarno si è beccato un colpo di pistola alla vescica da una mano mai identificata, ma sicuramente ispirata dai caporali legati alla ‘ndrangheta. La rivolta di Rosarno del 2010 nasce proprio da questo episodio. C’è Sekine Traore del Mali, che è morto ammazzato nella tendopoli di San Ferdinando nel 2016 per mano di un carabiniere in circostanze mai del tutto chiarite. All’epoca si parlò di una lite degenerata che il carabiniere cercò di sedare, Sekine che si scaglia sul carabiniere con un coltello e quello reagisce sparando con la pistola d’ordinanza. E mi fermo qui per brevità.

In ogni caso, ho voluto creare una storia che, pur facendo riferimento a fatti reali, avesse una valenza universale. Immaginaria ma al tempo stesso plausibile. Infatti, credo che il più bel complimento che abbia ricevuto per questo romanzo sia giunto da Ebrima Danso, giovane artista gambiano di enorme talento che durante la presentazione del libro a Riace l’anno scorso ha detto di riconoscersi nella storia da me raccontata, lui che il mare del Canale di Sicilia l’ha attraversato davvero su un barcone, mica come me che me lo sono solo immaginato. Insomma, penso non ci possa essere gratificazione più grande per uno scrittore, specie per un dilettante come me.

Il titolo del libro ha connessioni con le vicende bibliche dell’Apocalisse? Siamo vicini alla fine del mondo?

P.P.D: – Il titolo del romanzo contiene una duplice allusione. Una è, in effetti, alla Bibbia. Nell’Antico Testamento Gog e Magog sono, per antonomasia, i nemici del popolo eletto, siano essi singoli personaggi o piuttosto popoli intesi nel loro insieme, e per questo San Giovanni, nell’Apocalisse, li indica come fautori di Satana nell’ultima battaglia contro Cristo alla fine dei tempi. Secondo Giovanni, che segue i contenuti escatologici del Libro di Ezechiele, Gog e Magog sono popoli lontani, selvaggi e sanguinari. Non dissimile, in fondo, è la rappresentazione che vien fatta nel Corano come di popoli portatori di caos. Dunque il lettore sarebbe indotto a credere che quelli di Magog siano, per l’appunto, “loro”, i migranti, portatori di caos e disordine come li dipinge una certa propaganda politica e un diffuso pregiudizio. Anzi, nel romanzo il protagonista, il giovane Nana, è assalito dal dubbio che molti italiani siano così ostili nei loro confronti perché convinti che i migranti siano i redivivi abitanti di Magog. In realtà, la storia dimostra ben altra verità, che il lettore non può che constatare in tutta la sua evidenza.

L’altra allusione è più squisitamente letteraria. “Gog”, infatti, è il titolo di un romanzo di Giovanni Papini a me particolarmente caro, in cui si satireggia, con toni che anticipano Huxley, sulla condizione dell’uomo nell’era del capitalismo. Non si tratta solo di un omaggio, ma piuttosto di un rovesciamento di prospettiva. Nel mio Magog, infatti, i protagonisti sono “loro”, i migranti, ma in realtà l’oggetto siamo noi, noi visti attraverso i loro occhi, come dicevo poc’anzi.

Io non so se siamo vicini all’Apocalisse. Una volta andava di moda prevedere la fine del mondo, dico nel 2012 o giù di lì e anche prima, alle soglie del 2000, ma ho l’impressione che la pandemia, ponendo l’umanità di fronte ad un reale pericolo, ad una crisi planetaria come non accadeva dai tempi dall’incubo nucleare degli anni ’50-’60, abbia dimostrato come l’equilibrio su cui si poggia il nostro mondo – e il benessere di cui godiamo noi occidentali – sia non soltanto insostenibile e sbagliato, ma anche estremamente fragile.

La copertina del volume – Illustrazione di Simona Ponzù Donato
Ed. Grafichèditore 2022

Sulla questione dei migranti sembrano esserci nella società sentimenti totalmente contrapposti, chi li accoglie e li sostiene e chi li odia e li respinge. Quale messaggio vuole lasciare, come autore, ai suoi lettori?

P.P.D: – Sulla questione dei migranti mi sembra che ci sia un dato di fatto incontrovertibile: l’unica figura politica che abbia coerentemente mantenuto i migranti al centro del proprio messaggio, senza mai strumentalizzarli per proprio tornaconto (anzi, al contrario, andando controcorrente) è stato ed è tuttora Papa Francesco. E questo la dice lunga sulla miseria della politica propriamente detta, non soltanto italiana – vedi, ad esempio, il caso di Angela Merkel – di fronte ad una tematica che trascende confini e barriere nazionali. Ormai è storicamente acquisito che il fenomeno che una volta veniva definito come “invasioni barbariche” fu in realtà uno spostamento di popoli, e che non fu certamente questo spostamento la causa della caduta dell’Impero romano. Ora, non voglio paragonare l’attuale fenomeno migratorio alle migrazioni tardoantiche, ma credo che noi siamo un po’ come in quella celebre poesia di Kavafis, “Aspettando i barbari”: tutto è fermo in attesa di questi fantomatici barbari, senonché, alla fine della giornata, di barbari non se ne vede nemmeno l’ombra.

“E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/Era una soluzione, quella gente” – trad. F.M. Pantani.

Adagiati come siamo sull’opportunistica divisione tra noi e loro, tra Occidente e Oriente, su un conflitto di civiltà caro ad una certa retorica giornalistica da Oriana Fallaci in giù, forse ci conviene avere un nemico, fare in modo che chi noi designiamo come nemico sia cosciente di essere nostro nemico. Se solo ci rendessimo conto di quanto tutto ciò sia assurdo, intendo l’odio, la chiusura, di quanto sia una schiavitù, una gabbia che noi stessi ci costruiamo e in cui, in fin dei conti, ci piace vivere… In fin dei conti, l’argomento che più spesso viene rinfacciato a chi difende i migranti è: “Visto che ti piacciono tanto, perché non ci convivi tu?”. Certo, è facile essere accoglienti dal proprio salotto, un po’ meno se si è costretti ad una convivenza forzata. Credo che l’errore sia proprio qui. Credo che ci sia una volontà politica, totalmente trasversale, volta a creare disagio, conflittualità ed emarginazione, e dunque odio.

Il romanzo, nel suo piccolo, individua nella comunione d’intenti tra ultimi, da una parte gli italiani onesti che hanno perso speranza e futuro, dall’altra i migranti che hanno preso coscienza del proprio ruolo positivo nella società, l’unica soluzione possibile. Che si può sintetizzare in due semplici parole: restare umani – come diceva Vittorio Arrigoni.

Sabato, 5 agosto 2023 – n°31/2023

In copertina: illustrazione di Simona Ponzù Donato (tutti i diritti riservati)

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