martedì, Marzo 19, 2024

Italia, Politica

L’indipendenza delle donne destabilizza il potere maschile e patriarcale

Dai quattro punti cardinali esempi di donne-coraggio

di Laura Sestini

Alla fine di ogni anno solare si tende a fare un bilancio degli obiettivi raggiunti e di ciò che talvolta, dopo 365 giorni, non ci appartiene più perché abbiamo nel frattempo deviato verso un percorso differente.

Il 2020 appena concluso si è dimostrato senz’altro un anno fuori dalle righe, impegnativo, intenso in tutte le possibili accezioni, che non ha lasciato nessuno indietro sia nella resistenza psicologica che abbiamo dovuto cercare dentro noi stessi, che nelle modalità esistenziali e di vita quotidiana, globalmente stravolte dalle restrizioni causate dal Covid-19.

Durante il primo lockdown italico molti di noi, provati dalla mancanza di libertà che ci ha costretti a riflettere su argomenti che mai ci saremmo attesi, hanno immaginato un futuro migliore, dove le persone, una volta superata la fase pandemica, avrebbero imparato a essere più eque e solidali, più attente al prossimo, più virtuose in senso generale.

Ahimé, abbiamo a che fare con le debolezze dell’essere umano, e dopo un anno esatto dal primo annuncio cinese – datato 31 dicembre 2019 – di una epidemia di polmonite parente stretta della Sars-1 in corso a Wuhan, la speranza e l’iniziale predisposizione alla maggiore solidarietà verso il prossimo – durante i numerosi periodi a fisarmonica apri-chiudi – si sono trasformate in nervosismo, rabbia, inadeguatezza e anche peggio.

Dopo la premessa – di cui forse si poteva fare a meno – l’intenzione è, però, di parlare d’altro. Sebbene a nostro avviso questa intenzione sia correlata al particolare stato delle cose – o non ne abbia risentito minimamente – dato che i percorsi geopolitici e sociali, tracciati precedentemente all’avvento della pandemia, ci paiono intonsi. Ben pochi, insomma, sono i governi e i singoli che ci sembrano cambiati in qualsosa di migliore rispetto a ciò a cui eravamo abituati prima del Covid-19.

Come anticipato nel titolo vogliamo dedicare una qualche minima riflessione ai casi che il 2020 ha messo in luce rispetto al trattamento legale, sociale e umano che hanno subìto molte donne attiviste, a seguito delle loro lotte per i diritti civili e umani, o perché impegnate in battaglie di genere e libertà negate. Non potendo elencarle tutte, ne prendiamo a esempio alcune, balzate alle cronache – chi per l’ennesima volta e chi per la prima – proprio negli ultimi giorni dell’anno.

Poiché il 2020 è stato caratterizzato dalla pandemia, inizieremo ricordando la giornalista, avvocatessa e attivista cinese Zhang Zhan condannata – negli ultimi giorni di dicembre – a quattro anni di reclusione per aver pubblicato, attraverso i suoi canali social, dei video girati nei luoghi di Wuhan dove era iniziato il contagio del virus. Giornalista indipendente, lo scopo dei suoi viaggi a Wuhan era stato di rendere pubblica la realtà dei contagi, la situazione degli ospedali e il numero dei decessi, oltre che divulgare i dati sui forni crematori in quanto non riteneva veritieri quelli comunicati attraverso i canali ufficiali del governo cinese guidato dal presidente Xi Jinping. Sua intenzione era anche denunciare gli arresti dei giornalisti che divulgavano materiali similari.

Le accuse rivolte dalle autorità giudiziarie nei confronti dell’attivista erano generiche e puntavano sul fatto che i suoi video di denuncia avevano generato confusione e procurato disinformazione – in sintesi, che fossero notizie false.

In realtà Zhang Zhan – attraverso il suo street journalism – aveva visitato ospedali stracolmi di pazienti internati e intervistato numerose famiglie con parenti vittime del Covid-19. Le informazioni da lei raccolte non collimavano con ciò che veniva ufficialmente comunicato rispetto al contenimento del Covid-19 sia ai cittadini cinesi sia al resto del mondo.

Zhang Zhan

A maggio del 2020 la giovane scompariva improvvisamente, prelevata da agenti segreti, per ricomparire, detenuta, a Shanghai qualche giorno dopo – e, quindi, a oltre 600 chilometri di distanza – presso il Nuovo Distretto Detentivo di Pudong. Da giugno 2020 la giornalista pratica uno sciopero della fame che l’ha molto debilitata nel corpo e nello spirito – e, per questo, è attualmente nutrita a forza dalle autorità cinesi, nonostante questo tipo di forzatura sia spesso letale per chi da lungo tempo è in sciopero della fame. Il processo a suo carico si è svolto a porte chiuse e ha avuto una breve durata – quasi un proforma. Difatti la donna si è convinta, secondo quanto riporta il suo legale, che la sua vita finirà in carcere.

In Cina, da quando è scoppiata la pandemia di Covid- 19, sono stati arrestati diversi giornalisti – sempre legati a divulgazioni non gradite sul virus – e di alcuni non si hanno più notizie; mentre altri sono in attesa di processo. Secondo quanto riporta Amnesty International Zhang Zhan ha subìto in carcere trattamenti degradanti e torture: “Oltre all’alimentazione forzata, è stata incatenata e le sue mani legate 24 ore al giorno per più di tre mesi. Cè grave preoccupazione per la sua salute e il suo benessere, oltre al rischio di ulteriori torture e maltrattamenti”.

Dalla Cina all’Arabia Saudita, per quanto riguarda arresti e processi di attiviste donne che lottano per i diritti civili e umani, il passo è breve. Loujain al-Hathloul, attivista per i diritti delle donne, già detenuta nelle carceri saudite da maggio 2018, è stata ritenuta colpevole – da uno specifico tribunale che tratta casi di terrorismo – e condannata a 5 anni e 8 mesi con l’imputazione di aver violato le norme di sicurezza nazionale, per aver parlato con giornalisti stranieri e con organi delle Nazioni Unite.

L’arresto del 2018 arrivò in seguito alle campagne di denuncia della ragazza contro il regime teocratico saudita wahhabita nei confronti delle donne, che non sono libere di muoversi se non accompagnate da un uomo della famiglia, e per il diritto a guidare l’auto.

Loujain al-Hathloul

Durante la detenzione Loujain al-Hathloul è stata reclusa a più riprese in cella di isolamento, non ha visto autorizzate visite regolari dei parenti e dei legali, oltre ad aver subìto – da quanto riportano i familiari più stretti e Amnesty International – frustate, abusi sessuali ed elettroshock. Insieme a lei, con le stesse motivazioni, sono state arrestate altre attiviste.

Per protesta la donna ha praticato periodi di sciopero per la fame, e ha ricevuto offerte di libertà – dalla reggenza di Mohamed Bin Salman – in cambio, però, del ritiro delle denunce per i maltrattamenti subiti in carcere. La giovane (che ha solo 31 anni) ha rifiutato ogni forma di agevolazione a livello giudiziario e, secondo quanto riportano le cronache, sarà liberata a marzo 2021, grazie ad alcune attenuanti concessele dalla monarchia saudita per non creare attriti con il futuro Presidente statunitense, Joe Biden.

Anche l’Italia non è esente da casi. Maria Edgarda Marcucci (Eddi) è la giovane donna alla quale, con sentenza del 22 dicembre scorso, è stata confermata dalla Corte di Appello del Tribunale di Torino la sorveglianza speciale (alla quale era già stata condannata a marzo 2020). La sorveglianza speciale è un provvedimento di restrizione delle libertà personali attraverso una norma che risulta applicabile anche in assenza di reato. Una misura di prevenzione sulla quale più volte la stessa CEDU – Corte Europea dei Diritti Umani – ha espresso dubbi in fatto di legittimità costituzionale.

La sorveglianza speciale prevede delle prescrizioni relative agli orari, ai luoghi e alle frequentazioni che il sorvegliato deve rispettare. Inoltre, alla persona sottoposta a tale regime, è consegnato un libretto nel quale sono annotate tutte le prescrizioni da osservare e da esibire su richiesta dell’Autorità di pubblica sicurezza. A tutto ciò si aggiungono i relativi controlli.

Maria Edgarda Marcucci

Eddi Marcucci è colpevole – di fronte alla legge italiana – di essersi recata in Siria di Nord-Est ed essersi unita alle lotte delle donne curde Ypj contro il Califfato Islamico. Unica donna tra gli italiani internazionalisti partiti alla volta del Rojava – l’area curdo-siriana – è anche la sola a cui la legge italiana ha comminato una condanna.

La ragazza è stata giudicata un soggetto pericoloso in virtù dell’apprendimento dell’uso delle armi in Siria e per la frequentazione, in Italia, di movimenti antagonisti, la partecipazione alle lotte per i diritti dei più deboli e l’appartenenza al movimento No-Tav.

Un giudizio che appare controverso e poco equo (forse anche causato da stereotipi di genere), quello nei confronti di Maria Edgarda Marcucci, senz’altro troppo poco dibattuto e approfondito, e alquanto paradossale se confrontato con il fatto che, dopo oltre 30 mesi dalla sconfitta militare del Califfato Islamico in Siria, pochissimi prigionieri (uomini e donne) stranieri affiliati jihadisti – detenuti in Siria di Nord-Est a controllo curdo – sono stati rimpatriati o richiamati nei Paesi di origine, anche europei, per essere giudicati delle violenze perpetrate nei confronti delle popolazioni civili in Siria e in Iraq.

In sintesi, per i mercenari jihadisti in Europa non ci sono tribunali in grado di giudicarli – né la volontà di farlo. Al contrario, in Italia (e in Gran Bretagna), si condanna chi il Califfato Islamico lo ha affrontato, difendendo gli ideali di libertà e di uguaglianza di genere, partecipando alla rivoluzione delle donne in atto in Siria di Nord-Est e nelle fila delle combattenti Ypj.

Terminiamo questa lista tematica con l’ennesimo caso di femminicidio nel nostro Paese. Agitu Ideo Gudeta è la donna di origine etiope violentata e barbaramente uccisa a martellate da Suleiman Adams – dipendente reo-confesso – presso l’azienda di Gudeta, in provincia di Trento, la sera del 30 dicembre.

L’assassinio della donna ha destato molta commozione tra coloro che conoscevano la sua storia personale. Arrivata in giovane età in Italia, dall’Etiopia, per studiare sociologia, una volta finiti gli studi era tornata nel Paese d’origine. Da adulta era diventata un’attivista intraprendendo diverse lotte contro le politiche del suo stesso Paese – segnato da dittature, guerre e carestie – e contro i soprusi di land grabbing ai quali era sottoposta la popolazione civile dagli Stati confinanti. In Etiopia, infatti, continuano gli scontri interni tra il governo centrale e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (i Tigrè sono una minoranza etnica etiope), che stanno causando molte perdite tra i civili. A causa delle persecuzioni politiche, nel 2010 Gudeta rientra in Italia come migrante e qui le viene riconosciuto lo status di rifugiata politica. Si trasferisce in Trentino, dove riesce a mettere in piedi un piccolo allevamento di capre mochene – una razza ovina in via di estinzione – recuperando un terreno abbandonato.

In questi dieci anni di permanenza in Italia era divenuta molto popolare, un esempio di riscatto femminile, ricevendo premi e riconoscimenti. Agitu con il proprio allevamento aveva realizzato un sogno e aveva denominato lo stesso e la sua produzione di formaggi La capra felice. La scelta per l’ambiente rurale da parte della donna aveva destato curiosità e apprezzamento in differenti ambiti, e in molti si erano presentati nella Valle dei Mocheni, dove si era stabilita, per un’intervista o una visita.

Agitu Ideo Gudeta con le sue capre

La sera dell’omicidio alcuni conoscenti – che non l’avevano vista arrivare a un appuntamento – avevano lanciato l’allarme. Il suo corpo è stato ritrovato esanime in una stanza della sua abitazione.

Il movente dell’omicidio sarebbe stato un contenzioso economico tra il collaboratore e Agitu così come da confessione di Suleiman Adams. La donna, però, avrebbe subìto anche violenza sessuale, il che contrasterebbe totalmente con le motivazioni fornite dall’assassino.

Gli inquirenti e gli esperti hanno altri strumenti di valutazione, ma in quanto donne ci sentiamo di sottolineare – in termini generali – la negatività, anche a livello simbolico (oltre che psicologico e fisico), dello stupro. La violenza sessuale è un atto che esprime volontà di potere e l’affermazione di una presunta superiorità di genere socialmente inaccettabile. Lo stupro è un’azione volontaria con la quale il maschio cerca di imporsi attraverso la violenza. L’uomo è consapevole della propria azione e dei fini che vuole raggiungere. Senza appello o scusante.

Già spaventoso l’atto di uccidere un essere umano – a martellate – a causa di una qualsiasi presunta motivazione; ancora peggio se per una banale questione di soldi – che avrebbe potuto trovare altre soluzioni. Ma lo stupro – se confermato dalle indagini e dalle sentenze – non ha niente a che vedere con una controversia economica e inficerebbe totalmente le basi stesse della versione del femminicida.

Aggiornamento: 11 febbraio 2021

L’attivista saudita Loujain al-Hathloul è stata rilasciata dopo circa 3 anni di detenzione

Sabato, 2 gennaio 2021

In copertina:  Christa – scultura di Edwina Sandys del 1975.

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