martedì, Marzo 19, 2024

Italia, Politica

Intervista a Vittorio Agnoletto

Dai Forum Sociali Mondiali al Covid-19

di Laura Sestini

Abbiamo incontrato Vittorio Agnoletto, fortuitamente, a un talk organizzato nell’ambito del Festival “Esperidi on the Moon” a Olginate di Lecco. Dopo averlo ascoltato con molto interesse nei suoi interventi da esperto di medicina, attraverso Radio Popolare di Milano, durante tutto il periodo di lockdown, non abbiamo voluto perdere l’occasione per porgli delle impellenti domande, convinti di trovare risposte chiare per molti dubbi che abbiamo nutrito a proposito di scelte politiche, sociali e sanitarie delle istituzioni nazionali e locali in materia di Covid-19 e pandemia.

Quindi lo ringraziamo per il tempo dedicatoci e la sua gentile disponibilità.

Lei è tra i fondatori di Lila, la Lega italiana per la Lotta all’Aids, e già da numerosi anni in campo per la lotta e l’educazione sanitaria di malattie epidemiche. Adesso con il Covid-19 siamo vivendo addirittura una pandemia, i cui decessi a livello mondiale, però, finora, non sono superiori a quelli annuali attribuiti all’Aids. Trova delle similitudini/divergenze tra queste due malattie per come vengono trattate, eticamente parlando? Di quale delle due bisognerebbe avere più timore?

V.A.: «Intanto complimenti, e non faccio mai complimenti quando non è necessario. Proprio in questi giorni sul libro che sto completando – Senza respiro – sto sottolineando quanto sia incredibile che in tutti questi mesi quasi nessuno si sia ricordato dell’Aids. È la prima volta, in tutte le interviste che ho rilasciato in questo periodo, che qualcuno mi fa una domanda su questo argomento. (Su Theblackcoffee ne avevamo scritto qui: https://www.theblackcoffee.eu/conte-ai-tempi-dellaids/ ). Sicuramente l’Aids è una pandemia, che ha colpito tutto il mondo, che continua globalmente a uccidere e che, anche in Italia, ogni anno infetta 3.600/4.000 persone. Quindi mi sono posto una domanda: “Come mai questa rimozione dalla memoria?”. La risposta che mi sono dato è che non si voglia tornare a parlare di sessualità, con tutte le complicazioni che porta con sé, specialmente in Italia dove si intreccia con una parte consistente del Paese legato alla Chiesa. Una Chiesa che fu anche divisa, con apici in cui l’Aids era un castigo di Dio e, viceversa, un prete come Don Ciotti che parlava dell’importanza del profilattico. Ma probabilmente c’è anche un altro motivo, ovvero di non voler essere costretti a fare i conti con la critica sollevata da tante associazioni di lotta all’Aids, già allora, all’organizzazione della medicina e ai suoi interessi economici. Inoltre, penso ci sia un terzo motivo, probabilmente, ovvero che non si voglia riportare in superficie la sofferenza per le tante morti giovani degli anni ’80 e ’90. Il punto più importante rimane comunque il secondo che ho citato: la rimozione dalla memoria dell’Aids è un fatto grave, poiché avremmo dovuto fare tesoro degli insegnamenti di allora – nonostante la diversa trasmissione del virus. L’attivismo di quegli anni, che rimarrà nella storia della medicina, e il coinvolgimento così forte della società civile e dell’associazionismo, non aveva precedenti. Un attivismo che ha messo in azione delle strategie finalizzate alla modifica dei comportamenti, ha parlato dell’importanza della prevenzione con un approccio multidisciplinare, oltre all’assistenza domiciliare e il counseling: questi sono tutte attività che irrompono nel mondo della medicina attraverso l’Aids. Prima dell’Aids – per esempio – il counseling non era inserito nella pratica medica di cura. Sono altresì perplesso sul fatto che le persone che sono state in televisione a parlare di Covid, siano le stesse che 20 anni fa parlavano di Aids ma abbiano ignorato qualunque riferimento a quell’esperienza. Per i virus che si trasmettono attraverso i comportamenti umani, per i quali non esiste un vaccino, è fondamentale la prevenzione, il comportamento dei singoli soggetti, e la consapevolezza della società civile. Ma non è stato valorizzato nulla di quello che era già stato fatto allora. Parlare di questo era scomodo perché dagli anni 80 a ora la struttura sanitaria – in nome del liberismo – ha subito cambiamenti enormi, quindi i servizi territoriali sono stati cancellati, con una forte delega al privato, specialmente in Lombardia, trasformata in una realtà ospedalo-centrica, con servizi di prevenzione chiusi e le campagne di educazione sanitaria ridotte ai minimi termini. In una vicenda come il coronavirus, sarebbe stato fondamentale mettere in piedi delle équipe multidisciplinari e multiprofessionali, come abbiamo cercato di fare noi con Medicina Democratica, il servizio di counseling coordinato da Guido Veronese all’Università Milano Bicocca, con l’organizzazione “Avvocati per niente” per la tutela dei diritti dei cittadini e con l’associazione “InCerchio” per la tutela delle persone con fragilità, ricostruendo una rete simile a quelle che era la Lila per la lotta all’AIDS. Ma questo tipo di lavoro trasversale, multidisciplinare, risulta ostico ai potentati economici – e a riguardo, ricorderei il caso Big Pharma, la questione dei brevetti e gli accordi Trips, che sono gli accordi sulla proprietà intellettuale della Organizzazione Mondiale del Commercio. Nel 1996 Nelson Mandela si scontra con Big Pharma poiché il Sudafrica vuole produrre i farmaci antivirali per conto proprio dato che costano troppo, ma il cartello multinazionale farmaceutico denuncia il Sudafrica presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Noi come Lila, il 26 giugno 1996, abbiamo interrotto una diretta tv, davanti a 9 milioni di telespettatori, per dire chi fossero i medici che la mattina, in Commissione Nazionale Aids, discutevano per le linee terapeutiche da seguire – che voleva dire definire il mercato – e il pomeriggio davano consulenze alle aziende farmaceutiche stesse. In Italia non avevamo medicinali, per mancato accordo sui prezzi troppo alti con le multinazionali e noi di Lila andavamo a prenderli in Svizzera. Al rientro, però, venivamo costantemente fermati alla frontiera, per introduzione illegale di farmaci sul territorio nazionale. In sintesi parlare adesso di Aids, sarebbe utile per riprendere in mano tutta la questione etica riguardo ai medicinali e ai potenziali vaccini, garantendo l’accesso alle terapie a tutta la popolazione mondiale e, quindi, mettendo in mora quegli accordi commerciali che allora mettevamo sotto accusa. Più che discutere di quale virus avere più paura, si devono riprendere i ragionamenti per proteggere la società nel suo complesso, cogliendo gli insegnamenti del passato che potranno essere utili anche per altri virus. Tutto il paradigma della sanità deve cambiare: è impossibile sconfiggere epidemie che si trasmettono per contatto e/o comportamenti umani solo con l’intervento sanitario, senza una co-responsabilizzazione della comunità».

Lei oltre due decadi fa già parlava e agiva contro il ‘Business dell’Aids’: intorno a ogni nuova malattia ci sono degli interessi economici, come spesso i cittadini sono portati a pensare, senza mai avere risposte effettive?

V.A.: «Come già sottolineato dobbiamo modificare tutto il paradigma della sanità, probabilmente dirò qualcosa che potrà scandalizzare qualche collega, ma dobbiamo decidere dove investire: è meglio spendere per un farmaco oncologico che costa 100 mila euro a ciclo, e che può portare alla sopravvivenza di 4/6 settimane, o è più etico utilizzare quello stesso importo per rafforzare la medicina territoriale di fronte alle epidemie? Quindi acquistare tamponi o reagenti e intensificare un sistema di sorveglianza epidemiologica e di ricerca? Questa diventa una domanda epocale perché negli ultimi decenni abbiamo avuto un pressing dal punto di vista epidemiologico, dovuto al passaggio di patogeni dalle specie animali all’uomo. Se in futuro dovremo ancora affrontare agenti infettivi di quel tipo, dovremo riconvertire tutta la Sanità a un nuovo modello che ci porterà a scontrarci con gli enormi interessi che sono all’interno del sistema sanitario. Perché la Sanità privata, semplificando, è un’azienda che persegue utili come qualunque altra azienda, e per aumentare gli utili ha bisogno di malattie. Quindi, quanto più funziona la prevenzione, tanto più si sottraggono malati e profitti alle aziende private. La medicina privata è antagonista della prevenzione, e si sviluppa solo intorno alla fase della cura. La cura però non è la Sanità, che la ricomprende all’epidemiologia, alla prevenzione, quindi alla cura e all’accompagnamento. Per mettere in discussione il business della Sanità privata bisogna proprio rimodellare l’orizzonte della concezione stessa di medicina e tornare a ragionare sui temi che sollevava già 50 anni fa Ivan Illich (scrittore e filosofo austriaco, n.d.g.). La lotta contro l’interesse privato in Sanità non è ideologica, ma una lotta necessaria per il riorientamento della Sanità stessa a tutela della salute. Siamo in un momento storico dove la Sanità a tutela della salute è in contrapposizione alla Sanità degli interessi privati. Per riallacciarsi all’attualità, come utilizzerà la Regione Lombardia i soldi che arriveranno? Per potenziare i poli ospedalieri o per la medicina territoriale, le Usca – le Unità Speciali di Continuità Assistenziale – eccetera? Stamattina (17 luglio, n.d.g.) ho avuto conferma che probabilmente le prime polmoniti interstiziali sorrette dal Covid erano già presenti a novembre 2019, con sicurezza a dicembre. Nella regione tecnologicamente più avanzata in Italia – la Lombardia – e tra le più avanzate d’Europa, non c’è stato un sistema epidemiologico di sorveglianza in grado di lanciare l’allarme per i numerosissimi casi di polmonite, che coincidevano con ciò che stava succedendo in Cina. Per intervenire si è aspettato fino al 21 febbraio. Lo scontro con la Sanità privata sarà fortissimo, e potremmo vincerlo solo se i cittadini saranno consapevoli».

Cosa ne pensa sulla potenziale obbligatorietà del vaccino anti-Covid, attraverso il quale il Governo Conte – ma anche altri Paesi europei – vorrebbero immunizzare la popolazione?

V.A.: «Per questa domanda non ci sono al momento le condizioni per rispondere perché non sappiamo se ci sarà il vaccino, in che contesto ci sarà e che efficacia avrà. Tra un anno il coronavirus ci sarà ancora? Sarà questo o si sarà modificato? Avrà perso una parte della sua aggressività, diventando una delle tante malattie con la quale la popolazione potrà convivere? Oppure tornerà nuovamente come lo abbiamo conosciuto? Magari non sarà più letale, chissà. Finché non ci sarà il vaccino non si potrà parlare in termini assoluti. Solo quando avrò il vaccino potrò valutare il quadro generale di quel momento, altrimenti esprimo solo una posizione ideologica che apre polemiche che non servono. In questo momento mi chiedo: ha senso e non c’era alternativa alla corsa di Italia, Francia, Germania per stanziare cifre enormi così da garantirsi l’accesso a un eventuale vaccino, rischiando tutti quei soldi se poi non si dovesse arrivare all’obiettivo? Questa scelta è molto interessante perché rappresenta l’arrendersi totale dei Paesi allo strapotere delle multinazionali farmaceutiche: la corsa in solitaria di un Paese contro un altro e la rinuncia dei governi di avvalersi dei consessi internazionali per cambiare le regole sulle proprietà intellettuali sui farmaci. Anziché puntare soldi a fondo perso su un cavallo tra 17 (metafora delle altrettante ricerche sul vaccino), rischiando di perdere la scommessa, questi Paesi avrebbero potuto convocare una sessione speciale del Wto per mettere mano agli accordi Trips. Al contrario, il modo in cui è stata affrontata la questione del vaccino è una subalternità totale delle istituzioni pubbliche agli interessi privati».

Lei insegna Globalizzazione e Politiche della Salute all’Università degli Studi di Milano. Quindi, insieme alla finanza e alle grandi multinazionali che direzionano i mercati, dovremmo abituarci anche alle malattie globalizzate?

V.A.: «Assolutamente sì. Le cause le conosciamo: cambiamenti climatici, deforestazione, allevamenti intensivi, insieme alla facilità di poter attraversare il globo con i passaggi aerei, producono i salti di specie di agenti patogeni e la possibilità di questi ultimi di utilizzare il corpo umano per viaggiare da una parte all’altra della Terra. Tutto questo era inevitabile? Era ampiamente evitabile se quel grande movimento antiliberista, che per l’opinione pubblica nasce a Seattle nel 1999, e poi va avanti con i Forum mondiali di Porto Alegre, di Genova, di Firenze, di  Mumbai, di Nairobi, eccetera – che aveva già previsto come l’attuale modello di sviluppo avrebbe portato a una forte crisi economica mondiale e a una crisi ambientale – non fosse stato sconfitto dal potere delle oligarchie che governano il mondo e non compreso dalla popolazione mondiale. Il nostro movimento scambiato per no-global era invece alter-mondialista. Friday for future (movimento nato su ispirazione di Greta Thunberg, n.d.g.) affonda le sue radici nelle stesse tematiche che discutevamo già allora. Dalla globalizzazione non si può tornare indietro, si può tornare indietro da questo tipo di modello. È possibile una globalizzazione diversa. Se andremo avanti nella stessa maniera ci troveremo ancora di fronte a malattie globalizzate».

Quando è scoppiata l’epidemia di Covid-19 a Wuhan, ho pensato (da cittadina non esperta) che si fosse verificata una fuga non volontaria del virus da qualche laboratorio in loco. Non voglio puntare il dito sulla nazione asiatica, tantomeno sostenere Trump nei suoi sproloqui quotidiani, ma ciò potrebbe essere verosimile? Oppure essere stato sviluppato, non dalla Cina, ma da chiunque altro Paese, o infine, come sembra essere il pensiero più accreditato da molti, è solo la natura che invia avvertimenti alla specie umana?

V.A.: «Non lo so, assolutamente. Per il ruolo che ho scelto di svolgere, evito di entrare dentro una dimensione esula dal dato scientifico, si colloca nell’ambito delle cose opinabili destinato a creare polemiche a priori. Il mio ragionamento è che non posso escludere nulla, ma mi auguro che ci sia su questo, in ambito internazionale, qualcuno che svolga delle indagini indipendenti per arrivare un domani a sapere cosa sia accaduto».

In Italia sono stati commessi molti errori nella gestione del virus, che hanno causato anche molti decessi. Come possono i cittadini difendersi dalle leggerezze della politica, che spesso mette in campo esperti-incompetenti, o non all’altezza, per gestire le emergenze?

V.A.: «Dobbiamo riappropriarci del destino della nostra salute, che non vuol dire che dobbiamo diventare tutti medici o scienziati, ma che c’è la necessità di una crescita di conoscenza e consapevolezza da parte dei cittadini anche attraverso nuove chiavi interpretative. Il cittadino è vittima di campagne pubblicitarie e mediatiche nascoste di messaggi finalizzati a ottenere un consenso su scelte che producono i profitti di pochi. Tutta la prosopopea in Lombardia che ognuno può scegliere di andare a curarsi dove vuole, in strutture pubbliche o private, è una narrazione che nasce da Formigoni (Roberto Formigoni, ex Presidente della Regione Lombardia dal 22 aprile 1995 al 18 marzo 2013, condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione, n.d.g.) in poi, che però nei fatti significa esattamente il contrario, ovvero che il privato viaggia sulle spalle del pubblico, facendo guadagni enormi, mentre l’utente si trova davanti a liste di attesa lunghissime e, se vuole fare visite in tempi reali, si deve affidare ai privati e pagare. Tutto questo meccanismo passa però come libera scelta del cittadino, sebbene sia stata data al settore privato – al contrario – la possibilità di stare dentro al Servizio Sanitario Nazionale, dove può attirare a sé il cittadino cercando poi di trsferirlo alla sua struttura non convenzionata. Ciò è frutto di una campagna di comunicazione ben orchestrata da parte dell’avversario. Il cittadino non deve delegare la tutela della sua salute a uno specialista, lui rimane il regista utilizzando gli specialisti. È importante che il cittadino sia consapevole di come dovrebbe funzionare il Servizio Sanitario, e che possa far sentire la sua voce se chiudono un Distretto Sanitario senza dover passare da un ufficio all’altro per l’ennesima impegnativa. Siamo di fronte alla volontà di tenere il cittadino nell’ignoranza. Per questo è importante chiedere che siano pubblicizzate alcune informazioni. Per esempio, come può permettersi l’Assessore alla Sanità della Regione Lombardia di non rendere pubbliche le spese sostenute dalla stessa regione a favore delle strutture private per le vicende Covid? Queste informazioni non sono di dominio pubblico, ma se lo fossero il cittadino potrebbe farsi qualche domanda, del tipo se nel settore pubblico per un posto letto si spende una certa cifra, perché la regione rimborsa al privato un prezzo molto maggiore? C’è bisogno di buona informazione ma c’è anche bisogno di sapere cosa siano le fake news, che sono girate in questo periodo, e che hanno creato un disastro informativo. Occorre mettere il cittadino in condizione, almeno in alcuni ambiti, di poter accedere a una corretta informazione, verificando lui stesso la veridicità delle notizie».

Oltre a quanto sopra, ci sembra che il Governo non sia stato molto coraggioso, lasciando economicamente in ginocchio, attraverso il lockdown e lo stato di emergenza, molte categorie professionali. Mesi e guadagni perduti che non riavremo indietro neanche con i milioni di Euro che arriveranno (forse) dall’Europa. La politica sembra essere sempre più avulsa dalla realtà, protetta nei palazzi da bodyguard e gel disinfettanti, e mai (volutamente) consapevole realmente di cosa succeda nelle case, e nelle tasche, dei cittadini.

V.A.: «Ci sono elementi diversi in questa domanda. La politica si è mossa in questa vicenda spesso in un gioco assolutamente autoreferenziale, mettendo al centro gli equilibri all’interno dei partiti. Io non credo, per esempio, che il Ministro Speranza non abbia chiaro come la Regione Lombardia abbia affrontato l’emergenza coronavirus e quali siano i disastri a cui è andata incontro. A Speranza sono state consegnate 85 mila firme che chiedono il commissariamento della Regione Lombardia con tutta la documentazione istituzionale atta a far questo, ma non è arrivata neanche una riga di risposta. Allora dove sta il punto? L’idea che mi sono in questo momento, l’ultima cosa che passa per la testa al Governo e al Ministro Speranza è di fare il braccio di ferro con una regione che ha una maggioranza politica differente, perché sposterebbe lo scontro politico a un altro livello.  E pazienza se i cittadini si tengono questo tipo di sanità. Perché non è stata istituita la zona rossa a Bergamo? Perché la Confindustria e interessi economici significativi premevano fortemente su chi governava la regione e sugli enti locali, che in questa regione afferiscono a due schieramenti diversi. C’era un consenso bipartisan a lasciare le cose così. Questo esemplifica facilmente come gli equilibri interni alla politica prevalgono sulle esigenze, in questo caso di vita, fondamentali, dei cittadini. Poi c’è un aspetto che va oltre al coronavirus, ovvero che le strutture intermedie, fondamentali nel gioco democratico, previste dalla Costituzione, molte volte oggi lasciano fuori fasce di popolazione, che non hanno forme di rappresentanza codificate. Questi sono coloro che hanno pagato più di tutti il lockdown, e che non hanno ricevuto sufficienti misure a sostegno dal Governo: sono i precari, le partite Iva e tutti coloro con contratti a tempo determinato. Per esempio, hanno pagato caro il lockdown le persone disabili, una categoria che conosco bene, a cui sono stati sospesi i pagamenti degli stage (stage formativi nelle aziende n.d.g.), ancora inevasi al 17 luglio: una vera vergogna. In pratica le fasce più deboli, che non hanno rappresentanze istituzionali codificate – come i riders, i call center o partite Iva che lavorano per aziende chiuse per mesi. Il problema è che la concertazione sociale avviene con delle parti sociali che rappresentano solo una fetta della popolazione, mentre gli altri si prendono solo le briciole. Ciò è un problema enorme sul quale dovrebbero interrogarsi anche i sindacati».

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