giovedì, Ottobre 03, 2024

Lifestyle, Società

Il gioco del Rugby insegna la vita

Intervista al coach Marcello Gurioli

di Laura Sestini

Marcello Gurioli è un ex rugbista del Cus Firenze, dove ha giocato fin da bambino per poi ritrovarsi ad essere un giocatore di una squadra in serie A. Terminata la carriera è rimasto nell’ambiente sportivo, per allenare le squadre giovanili. Lo abbiamo raggiunto a Città del Messico, dove si è trasferito come allenatore, per capire – data la sua lunga esperienza – gli aspetti di questa disciplina sportiva, non troppo nota agli occhi dei più.


Lei ha iniziato a giocare da bambino. Chi la indirizzò al rugby, uno sport non proprio popolare come il calcio?
Marcello Gurioli: «Ero a scuola, in prima media. Il nostro insegnante di educazione fisica – Mario Lodigiani, ormai scomparso – era un grande rugbista e giocatore del calcio storico fiorentino. In gruppo andammo a vedere una partita – ricordo contro il Rovigo al Padovani di Firenze – e il giorno seguente alcuni di noi, meravigliati, iniziarono ad allenarsi con lui».

Il rugby per lei non è stato uno sport da ragazzini, da abbandonare quando si inizia a lavorare perché non si ha più abbastanza tempo da dedicargli. Lo ha vissuto, al contrario, a tutto campo, poiché ha continuato a giocare nel Cus Firenze – una squadra di serie A, anche se allora il rugby non era ancora uno sport professionistico – fino a che non è passato al ruolo di allenatore nel 2002. Cosa lo ha attratto in questa disciplina sportiva?
M.G.: «Il rugby è stato per me più di uno sport. Una famiglia in cui si creano legami molto intensi, che continuano negli anni. Il rispetto sul campo e fuori mi ha legato a questa disciplina per tutta la vita e molte cose che ho imparato sul campo mi sono servite anche nella vita quotidiana».

Cosa ha imparato da questo mondo, semi-sconosciuto ai più se non per le danze tribali di buon auspicio della nazionale neozelandese?
M.G.: «Ho imparato ad apprendere, a mettermi sempre in discussione prima di mettermi in gioco, ad ascoltare il parere degli altri e a vivere in squadra. È stato accorgersi che non si è nulla se si fanno le cose da soli, e fare propria la forza del gruppo è stato determinante. La squadra non è solo quella che scende in campo ma è composta da moltissime persone in più: dai compagni che rimangono fuori dalla partita e guardano dalla tribuna – ma ti hanno permesso di allenarti al meglio – fino al pubblico e ai familiari dei tuoi compagni».

Da allenatore, si è dedicato quasi esclusivamente alle squadre giovanili: c’è un motivo particolare? È una sua scelta precisa?
M.G.: «La scelta di allenare i giovani, a volte, è legata alle necessità della Società che, in media, guarda molto più al risultato. Mi spiego: se alleni una squadra Seniores (serie C) di adulti, che fanno un campionato, hai il solo obiettivo di vincere. Con i bambini non è così: gli insegni a stare insieme, a condividere, gli insegni il gioco del rugby – dalla tecnica al regolamento – a vincere le proprie paure e a superare i propri limiti. E questo anche fuori dal campo. I giovani sono spugne che imparano – e pretendono di imparare – e ti aiutano a vivere meglio e a migliorare anche te stesso, perché per loro sei un esempio e non puoi permetterti di dare il cattivo esempio, che sarebbe un grave errore. Una volta, un genitore mi chiese perché non avevo fatto giocare suo figlio per tutta la partita e avevo scelto di far giocare un altro ragazzo. Semplicemente perché il ragazzo che avevo scelto di mettere in campo era più debole, e come potevo aiutarlo a migliorare se lo tenevo in panchina? L’obiettivo è formare, prima di tutto, giocatori – ma anche adulti consapevoli. Un progetto ambizioso».

Quali sono le principali virtù da apprendere da questo sport, che educhino i giovani alla vita adulta? Cosa intende trasmettere ai suoi atleti, che ha imparato lei stesso durante la carriera sportiva?
M.G.: «In parte ho già risposto ma aggiungerei che essere compagni di squadra, che lavorano insieme per lo stesso obiettivo, è fondamentale. A proposito, l’obiettivo comune non è certo vincere ma divertirsi ed esprimere la propria libertà e personalità. Ho sempre chiesto ai miei giocatori di osare, di permettersi di sbagliare continuando a combattere e, se un compagno commette un errore, il mio compito di compagno di squadra è aiutarlo, non criticarlo. Devo ammettere che questo, nel rugby, accade davvero. Quando impari ciò, lo fai anche fuori dal campo, a scuola o in ufficio, e magari anche in famiglia. È per questo che dopo una iniziale paura i genitori diventano dirigenti e perfino presidenti di società rugbistiche».

Nel gioco del rugby ci sono anche squadre femminili. Cosa possono assorbire le ragazze da uno sport che pare così violento agli occhi dei profani e che, per ciò, sembrerebbe più adatto agli atleti maschi, anche senza farne una questione di genere?
M.G.: «Io mi vanto di aver trattato le bambine che ho allenato nella stessa maniera dei ‘maschi’ e di questo mi hanno ringraziato! Io ho allenato atleti, non maschi o femmine. Le bambine che ho allenato hanno imparato a non avere paura, a non sentirsi fuori luogo, hanno imparato a pretendere il rispetto e, ovviamente, a darlo. Hanno imparato che bisogna avere un obiettivo e che, per raggiungerlo, occorre lottare e, a volte, fare qualche sacrificio».

Nel Cus-Firenze ha allenato anche qualche ragazza. Ci sono differenze, escluse quelle fisico-sportive, nel preparare le adolescenti femmine? Un altro approccio, magari più delicato?
M.G.: «No, non ci sono differenze. Quello che ho notato nelle bambine dai 10 ai 14 anni è che sono molto più disciplinate, molto più decise e affidabili dei bambini, forse più mature».

Un’azione del gioco del rugby – Photo Courtesy ©Coyotes Rugby Club.

Nel 2019, infine, ha accettato di allenare il Rugby Club Coyotes a Città del Messico, squadra maschile e femminile – Società di cui era già stato allenatore nel 2013. Il rugby è uno sport molto giovane in Messico e, infatti, la Federación Mexicana de Rugby è stata fondata solo nel 2003. Sta trasferendo i saperi sportivi acquisiti in Italia?
M.G.: «In Messico il rugby è uno sport sconosciuto. Non esistono strutture, non ci sono soldi, le distanze sono immense. Perciò un allenatore con una conoscenza del gioco e delle relazioni allenatore/giocatori/dirigenti come quella che ho io è molto ricercata. Mi apprezzano e mi aiutano. Io cerco di dare tutto quello che posso, seppur con mille difficoltà. In Italia allenavo giocatori con un vissuto di 10/15 anni sui campi, qui alleno ragazzi che hanno iniziato da adulti, magari da 5 anni, e pensano di essere campioni. È complicato ma è una sfida che accetto, e piano piano otterrò sicuramente dei risultati».

La metropoli di Città del Messico: una società totalmente differente da quella italiana, un’altra lingua e uno sport tutto da insegnare. Quindi, una nuova vita da scoprire? Che effetto fa ai suoi giocatori avere un allenatore straniero, proveniente da un Paese che ha una storia sportiva importante in questa disciplina?
M.G.: «I ragazzi mi rispettano. Io cerco di essere uno di loro, non il loro ‘maestro’. Mi confronto, mi faccio aiutare con la lingua, e cerco di motivarli. Ho imparato a non gridare, ed è già molto per il mio carattere. Sto cercando di fargli vedere un rugby diverso da quello che conoscono, facendo cose semplici ma efficaci. Purtroppo il tempo per allenarsi non è molto e riuscire a farli divertire, affinché siano presenti a tutti gli allenamenti, è difficile. Ho dovuto imparare un nuovo modo di allenare rispetto all’Italia, però sono contento e spero di continuare a lungo».

Sabato, 27 febbraio 2021 – N° 5/2021.

In copertina: un’azione del gioco del rugby femminile. Photo Courtesy ©Coyotes Rugby ClubCittà del Messico.

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