martedì, Marzo 19, 2024

Italia, Politica

Cooperanti e rapimenti

Intervista a Francesco Azzarà

di Laura Sestini

Il 14 agosto del 2011 a Nyala, regione del Darfur in Sudan, viene rapito Francesco Azzarà, cooperante in una struttura pediatrica di Emergency, la ONG fondata da Gino Strada. Francesco Azzarà non era alla sua prima missione ed era arrivato in loco da circa un mese; qui ricopriva un ruolo amministrativo che, a differenza degli operatori sanitari della Ong, lo portava spesso a muoversi localmente per gli acquisti necessari alla struttura stessa. Quel fatidico e polveroso giorno di agosto, durante un tragitto verso l’aeroporto, degli uomini armati e mascherati bloccarono l’auto – sulla quale viaggiava insieme all’autista sudanese e altri collaboratori – e lo trascinarono via con sè. La prigionia durò circa quattro mesi, durante i quali fu passato di mano da più di una organizzazione criminale, e infine liberato a dicembre dello stesso anno.

Al rientro in Italia, raccontò di avere attraversato posti sperduti e sconosciuti, aver vissuto in isolamento, ma di non avere mai perso la speranza.

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La liberazione di Silvia Romano ha suscitato sì molta gioia ma anche molto dissenso, con picchi di puro hate speech di migliaia di sconosciuti sui social, ma anche nei titoloni ‘intolleranti’ di alcuni quotidiani che hanno preso di mira la proclamata conversione all’Islam della giovane cooperante. Quanto può cambiare la mente di una persona che subisce la violenza psicologica di un rapimento – senza escludere 18 mesi di prigionia – nonostante lei stessa affermi che sia stata ‘trattata bene’?

F.A. – Non entro nel merito di cosa abbia portato alla conversione all’Islam di Silvia Romano: semplicemente rispetto la sua scelta, e non mi chiedo perché ciò sia avvenuto. Con questo non escludo a priori che non ci sia un condizionamento; d’altro canto il rapito inevitabilmente non si trova in condizione di libertà. Ma ripeto, la conversione riguarda una scelta personale di Silvia, che in quanto tale va accolta.

Comunque credo che ogni prigionia rappresenti una storia a sé, frutto di una esperienza in qualche modo unica, e sicuramente è un evento traumatico, che ti cambia.

Per quello che mi riguarda, anche io ho detto di essere stato trattato bene; ovviamente questa affermazione va contestualizzata nel quadro di un rapimento, e va letta nel fatto che non si siano subìte torture, ma non esclude le tante situazioni pericolose vissute, così come che non ci siano stati momenti in cui la propria vita non sia stata messa a repentaglio.

Si è parlato di Sindrome di Stoccolma. Lei quanto crede a questa versione dei fatti?

F.A. – Questo si ricollega a quanto detto sopra. Il fatto che Silvia abbia riferito che sia stata trattata bene significa poco per poter capire come siano andate effettivamente le cose. Ritengo che non c’entri nulla, perché chi sostiene che abbia avuto la Sindrome di Stoccolma sottintende magari anche che abbia sposato o avuto una relazione con uno dei rapitori.

Silvia Romano, in una testimonianza pubblicata da Il Corriere della Sera, afferma di avere avuto necessità di pregare e che le sia stata porta – dai carcerieri – una copia del Corano in italiano. Lasciando da parte giudizi e pregiudizi, la fede religiosa è normalmente un sentimento intimo, che sarebbe rimasto tale se Silvia fosse arrivata in Italia con un abbigliamento più casual al quale nessuno avrebbe fatto caso. Potrebbe sembrare uno sfoggio intenzionale l’arrivo con un abito tradizionale somalo che rimanda istantaneamente all’Islam? Una rivendicazione? Una provocazione? Una spettacolarizzazione che coinvolge anche il Ministero degli Esteri, come qualcuno ha già scritto?

F.A. – Rispondo facendo una domanda. E se fosse semplicemente il sentimento di un percorso di fede intrapreso, che si manifesta anche attraverso degli indumenti indossati?

Per quanto riguarda la lettura del libro del Corano, se ne avessi avuto anche io uno disponibile lo avrei sicuramente letto, considerato che il tempo in quei momenti era dilatato, e pur di farlo passare avrei letto qualsiasi cosa. Aggiungo che non ritengo che ci sia stata una spettacolarizzazione del suo arrivo, considerato che le autorità italiane hanno sempre ricevuto in aeroporto le persone vittime di sequestri di persona avvenuti in Paesi stranieri: basta andare a guardare le immagini del passato. Infine, chi scrive o parla di una spettacolarizzazione, nasconde dietro questo aspetto quello che invece è saltato agli occhi di tutti – e che in qualche modo infastidisce tanti – ossia gli abiti indossati da Silvia.

Lei fu rapito in Sudan ad agosto del 2011, quando ancora non potevamo immaginare come – negli ultimi nove anni – il mondo avrebbe così accelerato la corsa agli armamenti – anche nucleari – quali sarebbero stati gli effetti delle primavere arabe, l’Isis, i foreign fighters e la guerra santa. Ipotizzando che – anche se ci sembra un motivo troppo semplicistico – le ragioni primarie del rapimento di un occidentale siano sempre rivolte a un riscatto in denaro, è plausibile secondo lei che possano esserci anche dei risvolti politici nelle liberazioni dei rapiti che divengono, contro la loro volontà, merce umana di permuta ‘geopolitica’ dietro le quinte? D’altronde gli Stati impegnano (quasi sempre) mezzi, uomini e ingenti somme di denaro per il recupero di connazionali in pericolo.

F.A. – Penso che probabilmente i rapimenti – e dunque le liberazioni – nella maggior parte dei casi uniscono alla possibile ragione dell’ottenere un riscatto anche altre motivazioni, le quali molto spesso travalicano l’aspetto di carattere economico.

La partneship, congiunta all’Italia, del MIT – i servizi segreti turchi – nella liberazione di Silvia Romano potrebbe far sospettare che, così come per il giubbotto antiproiettile turco fatto indossare alla giovane cooperante e rivendicato dalla Turchia sui media (con affermazioni opposte a ciò che hanno scritto i media italiani) per dar prova di essere stato il Paese in prima linea nelle operazioni di ritrovamento (ma verosimilmente pure nella trattativa di rilascio), tale potrebbe essere anche l’abito indossato all’arrivo in Italia dalla ragazza, quale ulteriore richiesta ‘mediatica’ di Erdogan, che sappiamo essere molto vicino al Movimento dei Fratelli Musulmani?

F.A. – Per quanto si possa pensare, i servizi di sicurezza di molti paesi – anche con interessi diversi, e molto spesso divergenti – in alcuni contesti, come in Africa, collaborano. E’ risaputo che gli italiani hanno risolto molto spesso, soprattutto in Libia, le problematiche di vari paesi, a causa sia della conoscenza da parte dei nostri agenti di sicurezza di quel territorio, così come dei rapporti intrattenuti dagli stessi con i capi tribù. Non mi stupisco che la stessa cosa possa essere avvenuta – a parti inverse – in Somalia con i servizi turchi.

Invece la foto del giubbotto antiproiettile con il simbolo della bandiera turca mi sembra una boutade, così come che il vestito indossato da Silvia le sia stato imposto da qualcuno.

Nelle discussioni di questi giorni, dopo la liberazione di Silvia Romano, si sono prese di mira le organizzazioni umanitarie e la loro responsabilità nei confronti dei collaboratori. Crede che le ONG abbiano delle responsabilità nella sicurezza dei cooperanti, oltre a quelle basilari? Nel senso che, si può potenzialmente essere sempre esposti a rapimenti e possibili violenze, circostanze sicuramente valutate ma subito dimenticate per poter lavorare in serenità in luoghi già di per sé carichi di problemi quotidiani?

Il centro pediatrico di Nyala
Foto ©Francesco Azzarà riproduzione vietata

F.A. – Le ONG non sono tutte uguali indubbiamente, e comunque nell’esperienza vissuta con Emergency si è sempre operato prendendo delle precauzioni per   evitare situazioni di pericolo, con delle procedure chiare e ben definite.

In un articolo uscito su La Stampa subito dopo la sua liberazione (https://www.lastampa.it/esteri/2011/12/19/news/azzara-non-capisco-br-perche-mi-hanno-rapito-1.36914806) lei affermò che non sapeva perché fosse stato rapito. Cosa è stato scoperto in seguito attraverso le indagini della magistratura?

F.A. – Ancora oggi non capisco le motivazioni del mio rapimento. Per quanto riguarda le indagini – oltre alla convocazione in Procura quando sono rientrato in Italia – non ho ricevuto ulteriori informazioni in merito

Che ricordo ha delle sue missioni con Emergency?

F.A. – Sono state delle esperienze bellissime, che lasciano qualcosa dentro di incomparabile. Le porterò sempre con me.

Cosa consiglierebbe a un giovane che volesse partire per un’esperienza come cooperante?

F.A. – Di intraprendere questo percorso senza remore. Si opera in contesti non semplici, ma si ritorna a casa con un bagaglio e una esperienza umana incommensurabile.

In copertina: Gino Strada e Francesco Azzarà. Foto archivio Ishtar Immagini 2013©Laura Sestini (riproduzione vietata).

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