All’Università La Manouba di Tunisi una cattedra di ‘Lingua e cultura siciliana’ intitolata a Vincenzo Consolo
di Laura Sestini
Alfonso Campisi è docente di Filologia di lingua italiana e romanza all’Università La Manouba di Tunisi e proprio in questi ultimi giorni si è aggiudicato il prestigioso Premio Ennio Flaiano per la letteratura con ‘Terres promises’ (edito da Editions Arabesques), un romanzo – pubblicato in francese – che attinge dalle esperienze migratorie dei secoli scorsi dei Siciliani verso la Tunisia.
Campisi è un linguista e un esperto mediterranista; prima di trasferirsi in Tunisia ha insegnato per numerosi anni come docente all’Università di Parigi.
Campisi è anche presidente dell’AISLLI – Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiani, per il continente africano; unica associazione di accademici inserita tra gli enti dell’UNESCO, sin dalla sua creazione nel 1957.
Nel 2015, dopo alcuni tentativi con atenei italiani, ha deciso di creare la cattedra universitaria di ‘Lingua e cultura siciliana per il dialogo delle culture e civiltà’ – la prima cattedra al mondo del suo genere – presso la più grande università umanista tunisina ‘La Manouba’, di Tunisi capitale. Solo negli Stati Uniti – esattamente a Philadelphia – l’Università della Pennsylvania offre qualcosa di simile, ma solo per corrispondenza.
La Cattedra sulla Sicilia e la sua cultura è intitolata allo scrittore, giornalista e saggista di origine siciliana, Vincenzo Consolo.
Concordi sull’idea che l’Italia – pardon, la Sicilia – abbia forti legami con la consorella tunisina dall’altra parte del Mediterraneo, quindi ne abbia condiviso, e ne condivida, gioie, dolori e destini similari, e accogliendo l’obiettivo di Campisi di ‘un ponte’ culturale tra i due territori delle opposte sponde del nostro mare più importante – dove attualmente muoiono annegati i sogni di centinaia, migliaia di tunisini e africani, senza dimenticare tutti gli altri – abbiamo chiesto ad Alfonso Campisi di raccontare di questo suo importante e riuscito progetto culturale.
Lei era insegnante di filologia italiana e romanza a Parigi e poi – si potrebbe dire quasi casualmente – si è ritrovato all’Ateneo La Manouba a Tunisi. Il salto sembra all’indietro, nei pregiudizi occidentali sulle università considerate minori. Invece?
Alfonso Campisi: – “Mi sono laureato all’Università di Palermo in Lingua e letteratura francese e poi sono partito verso la Francia per un dottorato. Subito dopo ho iniziato ad insegnare alle Università 3 e 8 di Parigi – una città che amo moltissimo e dove mi reco tuttora frequentemente. Sono rimasto all’insegnamento per 10 anni, fino a quando mi si è prospettata un’occasione di spostarmi per due anni in un altro Paese e, considerando che l’atmosfera all’ateneo parigino non era delle migliori, ho deciso di accettare. Quindi sono arrivato a Tunisi – contentissimo – perché parte della mia famiglia era di Tunisi; cioè siamo Siciliani di Tunisi (e non Siciliani a Tunisi), quindi avvertiamo anche il senso di appartenenza alla Tunisia. Per me Tunisi è stata una grande scoperta, perché l’avevo vissuta solo attraverso i ricordi tunisini della nonna, sulla sua cucina e sui modi di fare qui. Era la prima volta per me in Tunisia. Trascorsi i due anni di contratto avrei dovuto tornare a Parigi, ma ho chiesto la possibilità di una proroga e la permanenza – da un anno all’altro – si è allungata fino a cinque anni, momento in cui, per regolamento, ho dovuto scegliere se tornare a Parigi o rimanere a La Manouba, decidendo di restare. Le prime motivazioni hanno trovato appiglio sul fatto che io sono molto mediterraneo – siciliano di origine – e ormai anche molto tunisino. Sono mediterraneo nel cuore, difatti a Parigi tutta l’atmosfera familiare mi mancava molto; il blu del cielo e del mare, il bianco delle case e pure l’eccesso mediterraneo che talvolta non è del tutto positivo. Non ho mai rimpianto la scelta di rimanere. In Tunisia ho ritrovato quel fattore umano che mi mancava a Parigi, la relazione con gli altri. L’aspetto umano quindi ha prevalso su molti altri punti. A Tunisi, inoltre, ho trovato una grande università, con un dipartimento dove finalmente l’Italiano faceva parte delle lingue principali, non una ‘petite langue’ come dicono in Francia. La Tunisia ha un grosso capitale di giovani, quindi non si fa fatica ad avere studenti come succede, al contrario, in altri luoghi: tale capitale umano il nostro Ministero degli Affari Esteri non lo ha mai preso in considerazione.”
Lei è di origine siciliana, e naturalmente conosce e userà un ‘dialetto’ siciliano tra amici o in famiglia. Al contrario ‘il Siciliano’ è riconosciuto da qualche anno come una vera e propria lingua, al pari dell’Italiano o dell’Inglese. Come avviene il passaggio da una sezione all’altra di un dialetto a lingua?
A.C.: – “Quello è il grande problema; ci sono due scuole in Italia di filologi e linguisti, ovvero chi considera ancora il Siciliano come un dialetto, mentre un secondo gruppo si schiera contro e la considera una vera lingua: io faccio parte di questo ultimo gruppo. I criteri per passare da dialetto a lingua sono ovviamente linguistici, ma abbastanza confusi ed in entrambe le scuole si assomigliano tantissimo. Il Siciliano, anche se con differenze da una città all’altra, è parlato in tutta la Regione. Per esempio per dire ‘ragazzo’ a Trapani si dice ‘picciriddu’, mentre a Catania ‘caruso’. Con un collega che insegna all’Università di New York, e con cui ho scritto il libro ‘Mparamu lu sicilianu’, ci siamo scontrati molto sulle diversità, ma abbiamo cercato di standardizzare il Siciliano e ne abbiamo realizzato un corso di grammatica divenuta un libro da adottare alle università. Se siamo riusciti in questo intento vuol dire che il Siciliano forse non è proprio un dialetto, anche con tutte le sue differenze. Inoltre insegnare la lingua siciliana è risultato molto facile, naturalmente con delle regole precise. Quindi rifiuto in blocco l’idea che il Siciliano sia un dialetto.”
Quali sono le caratteristiche principali che un idioma deve avere per elevarsi al grado di lingua?
A.C.: – “La lingua siciliana è stata riconosciuta anche dall’Unesco e addirittura su Google si trova tra le lingue di traduzione. Sinceramente non riesco a capire come i miei colleghi linguisti rifiutino di attribuire lo statuto di lingua al Siciliano. Quando parliamo di dialetti è come se questi avessero un valore inferiore. Il Siciliano riguarda anche una parte della Calabria perché è lo stesso ceppo linguistico. Anche in Italiano o altre lingue, tra una regione e l’altra ci sono delle diversità. Sono teorie differenti, dove ognuno scientificamente cerca di giustificare le proprie ricerche.”
Quindi potenzialmente altri dialetti ‘forti’ parlati in Italia potrebbero essere considerati lingua?
A.C.: – “Certuni sicuramente. Un esempio può essere il Sardo, che è una lingua a tutti gli effetti. Tempo fa in Parlamento un deputato si è espresso in Sardo e nessuno ha capito niente. Certe lingue regionali sono fortemente presenti, hanno una loro storia – come le Scuole poetiche siciliana e fiorentina – con un background passato importante. Se si paragonano ad altre regioni dove invece il dialetto non ha generato produzione letteraria e magari si usa di meno parlando, quindi il caso è diverso. In Sicilia ancora è un idioma che tutti parlano, specialmente gli anziani; meno i ragazzi e i bambini perché da un certo momento parlare in ‘dialetto’ fu vietato (dal 1923 con il Governo fascista – n.d.g.).
Una volta a Tunisi, dove è arrivato per insegnare filologia italiana, ha deciso di avviare qui una cattedra di ‘Lingua siciliana’. Con quale obiettivo?
A.C. – “La Cattedra di lingua siciliana è nata nel 2016 ed è stata intitolata a Vincenzo Consolo, scrittore messinese. Si denomina ‘Cattedra Sicilia per il dialogo di cultura e civiltà’. Lo scopo primario di questo insegnamento è il dialogo interculturale, interreligioso, interlinguistico tra le due rive – nord e sud – del Mediterraneo. Su questa tematica lavoro da oltre 25 anni e ho pensato di introdurre nella cattedra anche la lingua e il suo insegnamento. Mi sono rivolto quindi al Ministero dell’università e della ricerca scientifica a Roma e anche alla Regione Sicilia dove è presente un assessorato all’identità siciliana, per avere un minimo di supporto anche morale. In due anni nessun Ente ha dato nessuna risposta alle mie domande. Al contrario, quando mi sono rivolto al Ministero della ricerca tunisina la risposta è arrivata prontamente, tantoché in cinque mesi abbiamo organizzato il corso. Una cattedra attivata nel piano di studi di italianistica per la Laurea di lingua e letteratura italiana, materia complementare per la specialistica degli ultimi due anni superiori, che in Tunisia si chiamano Master 1 e 2. Quindi l’obiettivo principale è di creare un ulteriore ponte tra le due rive mediterranee. In Italia ci sono molti cliché pregiudiziali sulla Tunisia, ma anche a guardare da qui – verso la riva nord – su cosa c’è in Italia e soprattutto in Sicilia. Noi siciliani abbiamo avuto una grande migrazione a fine del 1800 verso la Tunisia, di circa 130 mila persone, superando nei numeri addirittura la presenza dei Francesi che erano sui 70 mila. Naturalmente in Tunisia arrivava gente molto povera e ancora rimane questo cliché – sia per la Tunisia che per l’Italia – dove la parola povertà ricorre spessissimo. Attraverso l’insegnamento della lingua, si vuole creare un altro ponte e cerchiamo di costruirlo ogni anno con i 50/60 studenti iscritti al corso. Qui a Tunisi arrivano anche studenti dalla Sicilia, per imparare l’Arabo o il Francese, o anche da altre città italiane per scambi culturali attraverso le università partner. Nel nostro piccolo credo che ci stiamo riuscendo a creare visioni differenti.”
In Italia la stessa cattedra di ‘Lingua siciliana’ non era stata accettata da nessuna università. Non se ne possono comprendere i motivi, dal punto di vista dello studio anche filologico delle lingue: la Scuola siciliana, insieme alla toscana-fiorentina, ha avuto una parte principale nella costruzione dell’Italiano da Dante Alighieri in poi. E’ corretto?
A.C.: – “E’ corretto e ci rifacciamo a ciò che dicevamo precedentemente, nella disquisizione sul dialetto o la lingua. In Sicilia, nelle università, esistono delle cattedre di ‘dialettologia siciliana’ – che fanno sempre parte di linguistica o di filologia – ma non di lingua siciliana. Di questo mi rammarico: la prima cattedra di lingua siciliana è nata a Tunisi invece che in Sicilia; seguita da Philadelphia, una delle più importanti università al mondo – anche se non è ancora ufficiale – dove si insegna il Siciliano nel dipartimento di Italiano, ma in Sicilia ancora no. Esistono delle Accademie, tra cui quella di lingua siciliana di cui faccio parte, ma non una Cattedra. In Italia rimane il problema del riconoscimento ufficiale come ‘lingua siciliana’, e finché non sarà risolto tra le due correnti di studiosi, credo che nessuna cattedra potrà nascere.”
Chi si iscrive al corso di Siciliano? Solo studenti appassionati di filologia e letteratura o riesce ad attirare curiosi anche da altri indirizzi di studio?
A.C.: – “Gli studenti arrivano da più indirizzi di studio, perché il Siciliano non può essere lingua di specializzazione con cui si può arrivare fino al dottorato, ovvero è tra quelle lingue considerate ‘minori’ come l’Iraniano, l’Ebraico o il Portoghese. Anche se il Siciliano si trova nel corso di italianistica, può essere scelto da chiunque e gli studenti hanno differenti interessi: chi aveva la nonna di Ragusa o di Trapani – di cui si è perso il cognome – e che spesso non hanno conosciuto, ma di cui si ricorda in famiglia di come cucinasse la pasta. I più numerosi però sono gli studenti tunisini curiosi di conoscere meglio l’Italia e la Sicilia, di cui sentono parlare soprattutto sul fenomeno della mafia. L’aspetto importante – dal punto di vista linguistico – è il forte prestito di scambio di vocaboli tra il Siciliano e l’Arabo tunisino. Spesso gli studenti mi dicono, dopo aver letto un testo o visto un video, che alcune cose si dicono alla stessa maniera, o molto assomigliante, nelle due lingue. Anche questo crea il legame: noi abbiamo 3 mila anni di storia comune con la Tunisia, almeno dal periodo fenicio-punico-cartaginese e poi romano. Attraverso la lingua si possono raggiungere anche altri obiettivi.”
Nei dialetti siciliani (o nella lingua) ci sono vocaboli, magari riadattati, presi in prestito da altre lingue, per esempio la francese o l’Arabo. E’ per questo che dal punto di vista filologico e culturale è così interessante studiare il Siciliano?
A.C.: – “Si, anche per questo. Nei posti dove c’è stata una grande migrazione siciliana è importante studiare la letteratura, la cultura, la storia di questa consistente presenza. Io ho studenti anche adulti – di 50/60 anni; ad esempio posso parlare di due signore per metà venete e di padre siciliano, a cui in famiglia era vietato di parlare in dialetto siciliano; ormai di quarta o quinta generazione tunisina, sono curiose di conoscere meglio la lingua e la cultura paterna. Sentirle parlare in italiano è alquanto curioso perché è un melange tra cadenza araba, siciliana e veneziana. Posso senz’altro affermare che con i miei studenti non mi annoio.”
Una volta che i Siciliani avranno consapevolezza di essere detentori di una lingua riconosciuta internazionalmente, chiederanno l’indipendenza dall’Italia? Non sarebbe il primo tentativo di autonomia, se si va a ritroso nella storia dell’isola.
A.C.: – “La sua domanda è provocatoria ma è realistica. Penso che sia la paura di tutti gli Stati il riconoscimento di una lingua. Anche la Francia ha riconosciuto la lingua alla Corsica, ma credo che nei politici ci sia sempre questo spauracchio. Cosa può voler dire il riconoscimento di una lingua? I movimenti indipendentisti esistono, abbiamo la Catalogna che vuole separarsi dalla Spagna ed ha una lingua propria. Ai miei studenti dico sempre che dietro a una lingua c’è sempre la storia di un gruppo di persone, di un popolo. Può essere motivo di rifiuto il riconoscimento di una lingua, per timore di ulteriori obiettivi politici. Anche per l’Arabo tunisino si potrebbe dire la stessa cosa. Quando si parla di ‘mondo arabo’ si mischia tutto, ma esistono numerosi mondi arabi. Per considerare l’Arabo come lingua comune di molti paesi, si dovrebbe parlare dell’Arabo letterario o classico, ma in Tunisia nessuna persona comune parla l’Arabo letterario, autodefinendosi piuttosto maghrebina o berbera, invece che araba.”
Ci narra qualcosa della vita da docente nella affascinante Tunisia? E del suo rapporto con studenti che hanno senz’altro abitudini e tradizioni completamente differenti dai loro coetanei in Europa?
A.C.: – “Innanzitutto qualche anno fa ho chiesto la nazionalità tunisina, che mi è stata concessa dal Presidente della Repubblica per merito, quindi la Tunisia è diventata anche il mio Paese. Qui ritrovo la mia sicilianità – giusto quel poco che basta senza l’eccesso – ho ritrovato un po’ di cultura francese e di cultura mediterranea; mi sono integrato benissimo in questo Paese. Per quanto riguarda gli studenti, sono diversi – ma non troppo – dagli studenti italiani e quando si ritrovano insieme non si notano troppe differenze, nonostante l’eterogenea tradizione culturale. I Tunisini hanno molta simpatia per l’Italia. Sicuramente sono diversi dai loro coetanei francesi. Inoltre, gli Italiani che vengono qui a studiare sono spesso arabisti, quindi già aperti ad altre culture. E’ necessario essere aperti alle differenze e alle altre realtà culturali, così molte barriere vengono subito eliminate. In genere il Tunisino è molto aperto verso gli altri popoli.”
Al termine dell’intervista abbiamo ancora parlato ancora un po’ di Tunisia, scoprendo della produzione di un docufilm con la regia di Marcello Bivona – anche lui siciliano di Tunisi ma trapiantato a Milano – dal titolo ‘Siciliani d’Africa – Tunisia terra promessa’ la cui prima uscirà a Tunisi ad ottobre.
Un lungometraggio sulla lingua dei Siciliani di Tunisia, che risulta un po’ diversa dall’originale in Sicilia, avendo subìto questa molte influenze francesi ed arabe. Il docufilm dà voce proprio ai vecchi siciliani tuttora in Tunisia e ai loro figli. La comunità siciliana di Tunisi attualmente è composta da circa 3 mila persone, a cui si sono aggiunti tutti i nuovi Italiani pensionati, imprenditori, ecc.
Campisi afferma che è sembrato doveroso e utile ‘immortalare’ questa comunità, e questa lingua che forse un giorno potrà anche scomparire, chissà. Noi ci auguriamo di no.
Sabato, 22 maggio 2021 – n° 17/2021
In copertina: Alfonso Campisi – Foto courtesy A. Campisi