mercoledì, Ottobre 16, 2024

Ambiente, Società

Se lo Stato di New York divenisse il capofila globale della moda sostenibile

Nel settore tessile diritti umani disattesi ed inquinamento

di Laura Sestini

«L’Accordo di Parigi rimane una pietra angolare della cooperazione tra i nostri paesi per affrontare efficacemente e tempestivamente i cambiamenti climatici e per attuare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda del 2030. Crediamo fermamente che l’accordo di Parigi non possa essere rinegoziato, in quanto strumento vitale per il nostro pianeta, le società e le economie. Siamo convinti che l’attuazione dell’accordo di Parigi offra grandi opportunità economiche per la prosperità e la crescita nei nostri paesi e su scala globale».

Fu questa la replica congiunta di Angela Merkel, Emmanuel Macron e il Presidente del Consiglio del governo italiano Paolo Gentiloni alle parole del presidente statunitense Donald Trump che aveva annunciato che la Convenzione sul clima di Parigi non era ‘roba’ che poteva interessare i suoi elettori, decidendo di tirarsi fuori dagli obiettivi che questa comportava per il 2030. Correvano i primi giorni di giugno del 2017, ma sembra già passato un secolo.

Ancora cinque fa c’era la possibilità di poter discutere sulla questione climatica e lo stato di salute della Terra; poi la pandemia, ci ha fatto in un attimo balzare in una situazione assolutamente inaspettata e surreale, dove tutte le attività politiche e sociali hanno preso una velocità e piega differente, ostacolate per molti versi, ma con la consapevolezza che su ciò che si poteva ancora ‘scherzare’ come aveva fatto piuttosto sfrontatamente Donald Trump – al contrario era apparsa estremamente urgente.

La pandemia ci ha messo di fronte alla realtà dei fatti ‘globali’ sotto molti punti di vista, con l’ecologia e il surriscaldamento della Terra in cima alla lista delle emergenze – superiori anche a quella sanitaria che stiamo tuttora contrastando.

A dispetto del passo indietro che aveva fatto Trump sugli Accordi a proposito di clima, su cui il successore Joe Biden ha prontamente ritrattato al suo insediamento, lo Stato di New York sta discutendo un nuovo disegno di legge che andrebbe ad obbligare ai brand della moda, qualora venisse approvato, di dimostrare l’impatto ambientale e sociale delle loro produzioni, obbligandoli a parametri ben precisi di sostenibilità.

Secondo quanto riportato dalla Banca Mondiale, infatti, l’industria della moda è responsabile di circa il 10% di tutte le emissioni annuali a livello globale. Nonostante la pandemia il consumo di moda sta accelerando i ritmi e gli esperti stimano che le emissioni di gas serra del settore aumenteranno del 50% prima della fine del decennio.

Il disegno di legge richiede ai principali rivenditori di moda che hanno entrate di oltre 100 milioni di dollari a livello globale, ed operano anche a New York, di rendere note le proprie politiche sugli aspetti ambientali e sociali della produzione. La legge altresì obbliga i marchi della moda – siano questi di lusso o fast fashion – ad istituire un fondo per realizzare progetti per la sostenibilità ambientale a beneficio e giustizia delle comunità danneggiate. Nessun marchio sarà escluso, poiché in entrambi i casi – lusso e moda low cost – la dislocazione delle case di produzione è basata prevalentemente in Cina, Estremo Oriente o in Europa dell’Est.

A chi contravvenisse il Fashion Sustainability and Social Accountability Act, le sanzioni ammonterebbero al 2% sui ricavi, a partire da 450 milioni di dollari.

Gli importi raccolti attraverso le ammende per la mancata osservazione della legge entrerebbero anch’esse in un fondo per sostenere progetti di giustizia ambientale.

Ai brand della moda verrà richiesto anche di dimostrare almeno il 50% dei loro fornitori, oltre tipo e materiali utilizzati per realizzare i capi di abbigliamento, inclusi quelli di riciclo. Le companies dovranno anche indicare gli impatti ecologici in base alle loro emissioni, al consumo di acqua e l’utilizzo di sostanze chimiche, e la sostenibilità del rapporto lavoro-retribuzione che gli intermediari praticano con i lavoratori della filiera. Tutte le informazioni andranno riportate sui siti web del marchio.

Allo Stato di New York l’onere di stilare un rapporto annuale pubblico delle aziende che non rispetteranno i parametri, in modo che anche i cittadini possano fare pressione su produzioni più responsabili e sostenibili, contro l’inquinamento e le emissioni di Co2.

«In quanto capitale mondiale della moda e degli affari, lo Stato di New York ha la responsabilità morale di promuovere come capofila la sensibilizzazione alla cura ambientale e sociale del comparto» – ha affermato la senatrice di Stato Alessandra Biaggi.

A livello globale, sulla sostenibilità ambientale e dei diritti dei lavoratori della filiera tessile dei grandi marchi, è attiva dal 1989 l’iniziativa Clean clothes campaign, nata nei Paesi Bassi ed operativa sulle produzioni di tutto il mondo.

Nonostante tutta l’avversione del mercato liberista alle politiche ambientali, qualcosa si muove e piccoli passi vengono compiuti a beneficio dei lavoratori e della clientela finale.

Chissà cosa ne penserà Donald Trump, se proprio uno Stato degli Usa risultasse come apripista alla sostenibilità ambientale dei grandi brand della moda che producono in Estremo Oriente – Bangladesh in testa – di cui per certo molti sono proprio statunitensi.

Sull’argomento:

https://www.theblackcoffee.eu/abbigliamento-a-costi-stracciati/

https://www.theblackcoffee.eu/moda-low-cost-e-inquinamento-tessile/

Sabato, 29 gennaio 2022 – n° 5/2022

In copertina: foto Freestocks/Unsplash

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