Cronache politiche italiane degli Anni ’70
di Laura Sestini
Pensando ad Anna è un film scritto e girato dal (giovane) regista Tomaso Aramini, tratto dal libro-testimonianza di Pasquale Abatangelo il quale, durante l’esperienza carceraria, detenuto come malvivente comune, negli anni ’70 si affiliò ai NAP – Nuclei Armati Proletari – movimento politico militante di estrema sinistra costola di Lotta Continua, che aveva le due basi principali tra Napoli e Firenze e raccoglieva le istanze di lavoratori e studenti contro le politiche governative durante i cosiddetti “anni di piombo“. Di per sé il gruppo ebbe vita piuttosto breve, ma venne apprezzato dalle Brigate Rosse dove alcuni suoi componenti infine confluirono.
Pasquale Abatangelo è oggi un uomo libero ed ha visto giusto di mettere nero su bianco le sue riflessioni, sul volume “Correvo pensando ad Anna”, nonchè le cronache dal vero, vissute in prima persona dall’altra parte della barricata, quella dei terroristi, anche detenuto all’Asinara, per sottolineare e dimostrare che per primo la violenza, le ingiustizie, le subisce il cittadino a causa delle forti pressioni delle istituzioni statali e/o governative, allora come oggi, per esempio il carico fiscale o la precarizzazione del lavoro, l’emarginazione sociale, per politiche errate e senza dignità o presupposti surreali come le guerre.
Il film di Aramini ha aperto una discussione politica nelle sontuose stanze comunali di Firenze – città dove è stato proiettato in anteprima nazionale, in concorso all’ultima edizione del Festival dei Popoli – proprio sulla moralità che un ex-terrorista (non ce ne voglia Abatangelo se usiamo questo termine) si prenda la briga di raccontare cosa accada dietro le quinte istituzionali della società borghese, contro cui allora – ed anche oggi in altre forme – si combatteva. Abatangelo elude le interviste, è comprensibile, però talvolta compare alle proiezioni del docufilm e risponde alle domande del pubblico come giusto compromesso.
Per entrare nel merito delle tematiche sociali e politiche di cui tratta il film, cinema di impegno civile, ci siamo rivolti al regista, con l’intento di conoscere anche le sue motivazioni per portare sul grande schermo l’esperienza di Abatangelo. Girato in forma di narrazione etnografico-performativa, uno strumento utilizzato in ambito accademico, ovvero dove insieme all’attore che impersona Abatangelo, Luca Iervolino, il reale protagonista a tratti funge da Piero Angela di se stesso, raccontando in prima persona dettagli importanti delle cronache quotidiane di quel periodo storico vissute sulla propria pelle.
Le scene sono state girate in due settimane tra le celle dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, dove gli attori Luca Iervolino e Tiziana De Giacomo hanno interpretato Abatangelo e la sua Anna, scomparsa nel 2018.
Paquale Abatangelo fu uno dei tredici detenuti politici di cui le BR chiesero la scarcerazione in cambio del rilascio di Aldo Moro: un uomo di salde convinzioni che non si è mai pentito né dissociato, e il cui unico momento di fragilità è il ricordo della donna amata, compagna di una vita di lotta.

Perché un film su quel periodo storico e in particolare sulla vicenda di Pasquale Abatangelo?
Tomaso Aramini – Questa è una domanda che spesso mi è stata fatta ed è anche una domanda corretta, per inquadrare un po’ il tema del film. Posso affermare che nelle mie intenzioni autoriali mi interessava raccontare gli anni Settanta dal punto di vista del carcere. Su quel periodo storico c’è una robusta filmografia che parla spesso dalla piazza, quindi le grandi manifestazioni, i grandi scioperi, gli scontri con la polizia antisommossa, ma mai dal carcere, un argomento in qualche modo trascurato, celato. Un amico mi ha suggerito il volume di Abatangelo perché aveva un’altra prospettiva, difatti ho trovato il suo scritto particolarmente interessante, perché oltre ad avere una chiarezza positiva da parte di Pasquale nel raccontare con estrema franchezza la sua storia, perché dal carcere, e le contraddizioni di quell’epoca, che nel film noi proviamo a raccontare e descrivere, riassumendole per aree tematiche: Stato, giovani, Partito Comunista Italiano, lotta armata e vita privata, e vita antipolitica. Contraddizioni complesse che con il racconto di Pasquale in un qualche modo diventano più chiare, più lineari, più immediatamente percepibili. Qui nasce l’interesse nel riportare questa storia, che tra l’altro ha avuto una lunga gestazione. Ho già all’attivo un documentario sugli anni Settanta, Le scarpe dimenticate, che tratta della vita nella campagna veronese vissuta da mia madre, e riporta anch’essa una prospettiva differente. Pensando ad Anna non è un prosieguo del primo, ma si incrociano per contesto storico con la vicenda di un ex-seminarista comboniano che attraversò tutti gli anni ’70 fino ad entrare nelle Brigate Rosse durante il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Una prospettiva che parte dal piccolo paese di campagna, e anche dal cattolicesimo radicale della giustizia e della liberazione; per capirne le contraddizioni e il tentativo proprio del percorso esistenziale di un uomo.
Negli anni ’70 ero poco più che una bambina che, ovviamente, non capiva niente di politica. Vivevo a Firenze, città “calda” degli anni di piombo. A casa mio padre era abitato ad ascoltare i telegiornali durante pranzo e cena, quindi io li “subivo” senza reale coscienza di cosa stesse accadendo, ma le immagini delle manifestazioni o delle cariche della polizia diventavano eloquenti indipendentemente. Un periodo dove si percepiva forte ribellione del popolo, un’atmosfera carica, potente, oggi potrei usare il termine “rivoluzionaria”. In realtà il grande fermento del periodo, e la lotta armata, non sono riusciti a portare avanti i propri ideali fino in fondo, forse per l’uso massiccio della violenza, perpetrato da entrambe le parti in gioco. Da adulta penso che, forse, si potevano trovare altre vie di trattativa con lo Stato. Viceversa, l’istituzione carceraria, ieri come oggi, si rivela sempre come un ambiente molto violento che si vuole tenere lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, salvo la conta dei suicidi dei detenuti. Molte chiacchiere intorno, ma nessuna soluzione reale viene discussa in Parlamento. Quindi, cosa ne pensa delle critiche che le sono arrivate per aver portato portato un ex-terrorista sul grande schermo? Le “opposizioni” al film hanno generato maggiore curiosità o hanno ostacolato il percorso di divulgazione?
T.A. – Come team di produzione eravamo consapevoli della possibilità di polemiche. Devo dire, però, che sono state polemiche circostanziate alla presenza di Pasquale Abatangelo all’interno del Festival dei Popoli, evento per cui il protagonista non ha percepito nessun compenso, giunto lì a sue spese come libero cittadino, persona che ha scontato per intero la sua pena, e nonostante ciò gli rimane appiccicata l’etichetta, il pregiudizio (borghese, n.d.r.), invitato dalla produzione, la quale a sua volta era assolutamente consapevole che la rassegna cinematografica fosse finanziata anche da fondi pubblici. In uno stato democratico quel cittadino avrebbe diritto di parola, invece a questa possibilità si è sostituito il diritto di polemica. Quindi in qualche modo il docufilm è stato penalizzato da un cinema importante di Firenze. Comunque è anche giusto dire che i documentari escono poco in sala e Pensando ad Anna è in linea con quanto accade ai documentari impegnati, su cui altrove, al contrario, stiamo avendo un vivace dibattito su tutti gli aspetti, che spaziano dalla storia alla politica, all’estetica, ed ha un calendario di proiezioni pieno fino all’estate prossima. Certo, un po’ di amarezza su Firenze rimane, lo confesso in tranquillità. Mi sarei aspettato un po’ più di apertura quantomeno da parte della direzione del cinema, perché per narrare la verità un cinema dove viene proiettato un documentario “difficile” farebbe parte del gioco. A parte Firenze, devo dire che non siamo stati penalizzati, anzi! Mano, mano che le serate funzionano ci stanno arrivando molte richieste da tutta Italia. In Toscana sta andando molto bene, richiesto da spazi “impegnati”, come le associazioni o gli spazi sociali. C’è molta attenzione, molto interesse, molta curiosità. Se Firenze a livello istituzionale ha qualche pregiudizio, tutti gli altri lo vedono sicuramente come qualcosa che può essere interessante da conoscere.
Abatangelo si nega ai giornalisti (per quanto ne sappiamo), diritto legittimo. Lei crede che se lo facesse, di raccontare la sua esperienza di lotta armata ai giornali, le polemiche crescerebbero?
T.A. – Questo bisognerebbe chiederlo a lui. Comunque, trascurando magari gli spazi sociali dove si può sentire più a suo agio, in quasi tutte le proiezioni al cinema Abatangelo è presente e risponde alle domande del pubblico. In realtà lo sta facendo in questo momento anche più di me, perché stiamo molte coprendo molte città: al buon confronto diretto non si è mai sottratto.
Il messaggio che vuole comunicare con questo suo lavoro, quale vorrebbe essere esattamente?
T.A. – Questa è una domanda complessa, che si dovrebbe disarticolare in più stratificazioni. Io credo che più di “messaggio” si possa parlare di riflessione, di una domanda e di un modo di leggere la storia, di un modo di dialettizzare, in termini di “anni Settanta”, con il passato. Quindi il messaggio, credo, è più nel medium utilizzato, come è stato realizzato il film e nell’approccio rigoroso del risultato con il quale abbiamo avvolto questa esperienza. Credo sia questo il messaggio. Una domanda vera, per certo, c’è in questo film, ovvero se la differenza politica è necessaria al cambiamento sociale o no, se le persone che si sono confrontate in alcuni periodi con lo Stato, che mi sembra ben si sottolineino nella scena del processo, con il compromesso storico, oppure l’idea del processo democratico nella parte del film dove sono stati tirati in ballo Pasolini e la Democrazia Cristiana, abbiano fatto la differenza. Cè anche l’idea del processo-guerrilla al governo e alla DC. Noi, queste tre linee politiche le abbiamo messe a confronto. Questa è sostanzialmente la domanda del film, ma il messaggio è rivolto alla riflessione, sarà lo spettatore che dovrà poi trarre le sue conclusioni.

Quindi riflettere sul fatto di come oggi i cittadini si trovino dentro un grande caos, politico, sociale e intellettuale, ma non scendano in piazza, metodo di dissenso che negli anni Settanta veniva utilizzato in massa.
T.A. – Come si scendeva in piazza! Le piazze erano piene. Invece, oggi siamo un po’, come dire… un po’ più comodi…. La piazza la facciamo davanti al televisore, davanti a Netflix. Questa è una bella riflessione. A me interessa questo, cioè l’effetto che il film ha sullo spettatore, il critico, il giornalista che inizia ad interrogarsi. Questo è ciò che mi rende orgoglioso del mio lavoro. Dopodiché, mia opinione personale, sono cambiati i connotati della società in modo così profondo che quello che era l’ordine del giorno negli anni ’70 adesso è distante migliaia di anni di luce. Innanzitutto il mondo si è globalizzato, qualcosa di cui bisogna tenere conto, cioè è protagonista l’operaio-massa, che non è la massa operaia degli anni ’70. La massa dei lavoratori oggi è frammentata, frammentatissima. Ma bisogna anche dire che quella classe operaia che è sopravvissuta, e che oggi lavora nelle imprese, è una classe operaia che in qualche modo è ancora garantita, è una classe operaia specializzata, è una classe operaia molto formata. Però, anche se il lavoro è a tempo intedeterminato rimane precario, a causa della globalizzazione. Nel momento in cui un lavoratore è assorbito da una multinazionale, questa guarda le statistiche per conferire i profitti agli azionisti, non certo per rivolgersi al territorio. La massa operai degli anni ’70 non esiste più, la Mirafiori con 50mila operai, l’Electrolux di Pordenone con 20mila. Si è perso il soggetto che in qualche modo muoveva la storia, pertanto è proprio cambiato il mondo del lavoro. Un discorso a parte meriterebbe l’industria delle armi, che anche in Italia abbiamo, su cui abbiamo molto discusso durante la realizzazione del film.
Che tipologia di spettatore attira “Pensando ad Anna”?
T.A. – Da noi arriva un pubblico maturo, persone che negli anni ’70 erano già in contatto con la politica vigente, e che con quel periodo vogliono riallacciare i rapporti, o che in qualche maniera vi si risvegliano. Oppure, c’è un pubblico giovane, molto giovane, necessario alla curiosità intellettuale; giovani che vogliono capire meglio, che di quel periodo storico conoscono solo i personaggi più famosi, soprattutto istituzionali che compaiono sui libri di scuola o, forse, non l’hanno studiato per niente. In effetti c’è una caratterizzazione anagrafica abbastanza forte nel nostro pubblico, con un salto generazionale dei trenta/quarantenni, una generazione che nasce, diciamo, sull’onda del disimpegno.
Vorrebbe aggiungere qualche particolare che non abbiamo toccato?
T.A. – Sicuramente tengo molto a ricordare Gaetano Di Vaio, scomparso recentemente per un tragico incidente. Un maestro, una figura apicale del cinema indipendente italiano, fondatore della Casa di produzione cinematografica partenopea Bronx Film. Anche lui, proveniente da un contesto di emarginazione del sud Italia, in qualche modo si politicizza, si radicalizza, ma in un ambito completamente diverso rispetto a quello degli anni Settanta, innamorandosi della cultura. Pensando ad Anna è l’ultimo film che ha contribuito a produrre.
Pensando ad Anna
scritto e diretto da Tomaso Aramini
con Pasquale Abatangelo, Luca Iervolino e Tiziana De Giacomo
colonna sonora di Eugenio Vatta
Italia 2024
Il film è prodotto da Tomaso Aramini per Method; Gaetano Di Vaio e Giovanna Crispino per Bronx Film; Silvia Vas Zeitlinger e Peter Zeitlinger per Mali Pegasus; in collaborazione con Studio Tumminelli Consulenza del Lavoro & Coaching HR, sostenuto da Fondo Audiovisivo FVG, Regione Campania, Campania Film Commission.
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Sabato, 22 marzo 2025 – Anno V – n°12/2025
In copertina: a sx Pasquale Abatangelo; a dx l’attore Luca Iervolino. Tutte le immagini: courtesy della Produzione