Una parte del gruppo trattenuta e interrogata dai servizi di intelligence iracheni con l’accusa di affiliazione al PKK
di Antonio Olivieri – Associazione Verso il Kurdistan
Una delegazione dell’Associazione Verso il Kurdistan Odv, avrebbe dovuto rimanere in Iraq dal 17 al 30 maggio 2025, invece è stata costretta a un rientro anticipato il 27 maggio, obbligato dal governo iracheno.
Gli obiettivi del viaggio erano tre: incontrare gli abitanti del campo rifugiati di Makhmour, per il quale l’Associazione ha finanziato negli anni scorsi la costruzione di un presidio sanitario; incontrarsi con gli esponenti dell’Amministrazione autonoma yazida e il personale dei presidi sanitari per fare il punto sulla costruzione dell’ospedale di Duhla, finanziato finora con 70mila dollari raccolti grazie alle campagne di sensibilizzazione dell’Associazione; verificare lo stato dei lavori e le priorità più urgenti.
Il popolo degli Yazidi nel 2014 hanno subito un genocidio da parte dell’ISIS, che ha massacrato migliaia di uomini e rapito e schiavizzato migliaia di donne e bambini.
Il 24 maggio u.s., la delegazione è arrivata a Kamashor, nel distretto di Shengal (Sinjar in arabo), la “Montagna sola”, e nel pomeriggio ha visitato il cimitero dei martiri caduti/e nella guerra di resistenza contro l’ISIS, tra cui molti ragazzi e ragazze. C’è stato poi il primo incontro con una esponente dell’Amministrazione autonoma locale.
Nessun problema è stato riscontrato ai check point presidiati dai militari iracheni.
Nella giornata di domenica 25 maggio, al mattino, la delegazione ha incontrato il personale medico e infermieristico del piccolo ospedale di Kamashor, ormai in funzione, che fornisce prestazioni ambulatoriali e di primo intervento alla popolazione.
Gratuitamente.
Nel pomeriggio di domenica, la delegazione doveva essere accompagnata al presidio sanitario di Serdest, situato sui primi contrafforti della montagna di Shengal. Per il viaggio eravamo stati divisi in due gruppi: quattro persone su un pick-up guidato da un ragazzo e sette persone su un pulmino alla cui guida c’era un uomo, tutti e due designati dall’Amministrazione autonoma. Al primo check point, il pick-up è passato senza problemi; il pulmino invece è stato fermato e sono stati richiesti i passaporti dei passeggeri.
Tutti erano corredati di un regolare visto rilasciato dall’Ambasciata irachena in Italia, con successivo timbro sul documento apposto dalla polizia all’arrivo all’aeroporto di Baghdad, sabato 17 maggio 2025.
Quindi, sia prima della partenza dall’Italia sia all’arrivo in Iraq.
Invece i sette componenti della delegazione, con il capo-delegazione Antonio Olivieri e l’autista, sono stati fermati e scortati da due mezzi militari fino a una grande caserma dell’esercito situata a Shengal. Ritirati passaporti e telefonini che sono stati riconsegnati al momento della partenza per l’Italia. Nella caserma di Shengal sono stati interrogati per ore senza supporto di alcun avvocato e interprete. Poi, da lì sono stati portati a Mosul, dove sono stati trattenuti da uomini dei servizi iracheni per tutta la notte in una cella di sicurezza della polizia. Solo il giorno dopo sono stati portati a Baghdad, non in ambasciata, però, ma presso la sede centrale dei servizi di intelligence, dove sono stati interrogati alla presenza dell’ambasciatrice italiana e del comandante dei Carabinieri presso l’ambasciata italiana a Baghdad. Ennesima perquisizione e ritiro dei notes con gli appunti. L’accusa formulata era di sostegno al terrorismo!
Un’odissea di circa trenta ore, da Shengal a Baghdad, in corsa su un pulmino di proprietà dell’autista, senza sosta per un pranzo. L’autista è stato rilasciato dopo l’interrogatorio, a Baghdad, della delegazione.
Solo dopo questo ulteriore passaggio i sette componenti della delegazione hanno potuto essere accolti presso l’Ambasciata italiana.
Nel frattempo, gli altri componenti della delegazione: tre donne, tra cui la capo-delegazione Lucia Giusti e un uomo, sono stati accompagnati da esponenti dell’Amministrazione autonoma nella Casa del Popolo di cui erano ospiti. Da lì si sono messi in contatto con la Farnesina e con l’Ambasciata italiana in Iraq, che si è subito mossa per garantire l’accoglienza presso la propria sede, in attesa di un volo di ritorno imposto a quel punto dal Governo iracheno prima della scadenza naturale del viaggio.
Il secondo gruppo poi ha raccolto i bagagli, compresi quelli dei sette dell’altro gruppo, ed è stato accompagnato durante la notte in una nuova casa. Da lì, il mattino dopo la capo-delegazione si è messa in contatto diretto con l’ambasciatrice: il Governo iracheno avrebbe garantito l’accompagnamento diretto fino a Baghdad, a evitare problemi ai check point. Anche in questo caso, però, dapprima il gruppo è stato portato in una caserma militare, scortato dai soldati per un breve tragitto e poi consegnato ad agenti dei servizi di intelligence, i quali all’inizio hanno garantito a parole che la meta immediata sarebbe stata, come da accordi, l’ambasciata di Baghdad.
Invece, superata Mosul in direzione della capitale irachena, il pick-up su cui viaggiavano i passeggeri e l’altro con i bagagli hanno fatto un’improvvisa inversione a U sull’autostrada per tornare evidentemente a Mosul, con gli agenti che continuavano a sostenere invece che l’ambasciata era la meta diretta. Come a dire che per andare a Roma da Firenze si va in direzione di Milano.
Infatti, i quattro esponenti della delegazione sono stati portati nella sede dei servizi di intelligence di Mosul e interrogati in uno spazio sotterraneo davanti a una cella di sicurezza, ad alludere che quella sarebbe stata il ricovero per la notte o per le notti seguenti.
Già, perché la prima accusa formulata è stata quella di essere fiancheggiatori del PKK, reato per il quale in Iraq è prevista la pena di morte. Il gruppo allora ha risposto che, se si era indagati, doveva esserci anche la possibilità di una difesa legale. Poi questa accusa è stata accantonata, ma l’interrogatorio è proseguito fino all’una di notte. Il gruppo ha ribadito che l’“Associazione Verso Il Kurdistan” è un ente di volontariato che in questo momento si occupa in particolare della costruzione di un ospedale a Duhla, nel territorio abitato dalla popolazione yazida e che l’obiettivo del viaggio era quello di portare aiuti concreti.
Cosa che è stata fatta.
Inoltre, il gruppo ha ricordato agli agenti che dal 2022 sono stati fatti quattro viaggi in territorio yazida: nel primo la delegazione dopo alcune vicissitudini era stata portata a Shengal da due agenti dei servizi di sicurezza che erano rimasti lì, con loro, per tutto il tempo della visita; nel 2023 di nuovo alcuni agenti dei servizi avevano trattato sulla presenza per una settimana e non per un solo giorno della delegazione nel distretto di Shengal; nel 2024 la delegazione era potuta arrivare presso la popolazione yazida senza problemi. Solo quest’anno c’è stato questo intervento repressivo nei confronti di un viaggio a scopo umanitario.
Alla fine dell’interrogatorio gli agenti volevano far dormire il gruppo nella cella di sicurezza; al rifiuto netto ricevuto, il gruppo è stato portato a dormire in un ufficio. Il mattino dopo, alle quattro, si è ripartiti per Baghdad, ma ancora una volta il gruppo non è stato portato in Ambasciata, ma nella sede centrale dell’intelligence iracheno. Lì si è svolto un nuovo interrogatorio, alla presenza però in questo caso dell’ambasciatrice italiana. Da parte nostra è stata ribadita la motivazione del viaggio. Alla fine ci è stato detto, a parole e con nessun documento scritto, che l’Associazione è riconosciuta in Italia ma non in Iraq. Non si capisce però allora perché nei precedenti viaggi il gruppo è stato scortato verso la meta dagli stessi servizi. Inoltre, non è stato emanato nei nostri confronti alcun decreto di espulsione.
Il motivo evidentemente è un altro: la pressione della Turchia sul governo iracheno a isolare la popolazione yazida e a impedire il ritorno di molti profughi in luoghi abitati da loro da millenni. Una montagna considerata strategica perché situata al confine, a Ovest con il Rojava e a Nord proprio con la Turchia, che continua a colpire con i droni un popolo che nel 2014 ha subito un genocidio riconosciuto dall’ONU e dal Parlamento europeo, ma che ha saputo riconquistare la propria terra sconfiggendo l’ISIS e costruendo una forma di Governo del territorio ispirata alla democrazia di base, a una concreta parità tra uomo e donna, all’ecologia umana e ambientale.
Per questo, nonostante il rientro anticipato imposto senza motivi dal governo iracheno, la nostra Associazione continuerà a sostenere la popolazione yazida, soprattutto con i progetti per l’istruzione e la sanità, i due principi cardine su cui può rinascere una società dopo essere stata distrutta.
Pensiamo che sia urgente anche il riconoscimento del genocidio da parte del Parlamento italiano.
A seguito dell’accaduto, l’Associazione Verso il Kurdistan, attraverso la parlamentare Laura Boldrini, ha depositato un’interrogazione parlamentare su quanto accaduto alla delegazione italiana inKurdistan iracheno.
Per approfondire:
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Sabato, 28 giugno 2025 – Anno V – n°26/2025
In copertina: vista su Mosul, città praticamente distrutta durante il Califfato Islamico – Foto: M.L. (Mosul si libero’ dall’Isis nel 2017, dopo 3 anni di invasione. Oggi è così. Macerie e ricostruzione difficile.)